Sarah Polley
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Attività
Presentazione e critica
La storia di Women Talking è una storia terribile. Una storia che parte da fatti realmente accaduti (in Bolivia, in una comunità Mennonita, nei primi anni Duemila) poi raccontati in un romanzo (di Miriam Towes): fatti atroci sullo stupro sistematico di donne che venivano stordite da narcotici veterinari. Di atroce, in Women Talking, non c’è però nulla.
Perché – come già aveva fatto Maria Schrader in Anche io, curiosamente anche quello prodotto da Brad Pitt, come questo, e come Blonde – a Sarah Polley non interessa affatto la sensazionalistica e spesso controproducente messa in scena della violenza, della violenza maschile sulle donne, ma le interessa, come ci dice esplicitamente il titolo del suo film, restituire alle donne la parola. Una parola attraverso la quale trovare coscienza, identità, coraggio, determinazione.
“Quello che segue è un atto d’immaginazione femminile”, avverte Sarah Polley all’inizio del film.
Un film che, quindi, ha qualcosa della fiaba, sicuramente l’astrazione, e che sembra vivere e galleggiare in un tempo sospeso, più sospeso ancora di quello che esiste all’interno di comunità religiose che, ai giorni nostri, si ostinato a vivere, e a pensare, come fossimo ancora nell’Ottocento. Un film che in qualche modo riprende quella sensazione di assenza di peso, e di deriva dalla realtà, di cui parla nelle sue primissime scene la voce narrante, quella di una delle donne protagoniste, la più giovane.
A far diventare ancora più astratto e fiabesco il mondo di Women Talking, la fotografia di Luc Montpellier, curatissima, chiaramente malikiana, ma mai eccessivamente patinata, e soprattutto desaturata per ridurre i colori, ma non le sfumature.
E però, in questo mondo sospeso, nelle 48 ore in cui prima del ritorno nella comunità dei loro aggressori, le donne protagoniste di questo film, chiuse nella bolla di un fienile, discutono di cosa fare (perdonare, come chiesto dagli anziani; rimanere e combattere; andarsene e ricominciare una nuova vita altrove), a dare gravità e concretezza al film sono proprio le parole. Le parole delle donne, finalmente libere di esprimere il loro pensiero libere da ogni condizionamento maschile.
Tutto quello che vediamo, in Women Talking, al netto di alcune composte e limitate digressioni quasi oniriche, sicuramente liriche, sono le protagoniste che parlano, si raccontano, si confrontano, litigano, valutano, ragionano. Che cercano di arrivare a una sintesi e a una decisione, facendo di quello di Polley una sorta di versione femminista di La parola ai giurati.
Non c’è altro, ma non è poco.(…)
(…) Bisogna dirlo. Non era facile, in tempi come quelli che viviamo, tempi non troppo equilibrati e con un’evidente tendenza a sbandate poco lucide da ogni parte e ogni punto di vista, fare di Women Talking un film capace di essere chiaro, deciso, femminista e militante, senza che questo lo trasformasse in un film radicalmente antimaschile, o accecato dall’ideologia e prono a eccessi poco utili e producenti. Sarah Polley ci è riuscita, e ci è riuscita tenendo sempre ben presente che il suo, prima che un manifesto, era un film. Un film al quale dedicare grande attenzione e cura nella forma, nella (esemplare) scrittura, nella recitazione. Un film chiuso nella sua storia, ma capace di dialogare col mondo.
Capace di muovere coscienze e sentimenti, e di muoversi in quel grande filone di cinema d’impegno civile (magari discalico, magari manicheo, ma utile) che in passato, a Hollywood, ha toccato molto spesso questioni razziali, e che ora parla di genere. E forse è per questo che la superflua postilla italiana al titolo, Il diritto di scegliere, mi è parsa consonante a quella di Mississippi Burning, Le radici dell’odio.(…)
Un gruppo di donne, una stalla impiegata come palcoscenico (e pulpito), un referendum per capire come procedere all’interno di una parabola drammatica e umana. Women Talking – Il diritto di scegliere, scritto e diretto da Sarah Polley (finalmente tornata alla regia a dieci anni dall’ottimo Stories We Tell), è un film di dettagli, di rumori, di smorfie, di tonalità che emergono. Poco a poco, lente e inesorabili. Le scene confluiscono nella stessa direzione, mentre la macchina da presa della regista, sullo sfondo, tiene ben centrato l’orizzonte. C’è un motivo, stilistico quanto metaforico: oltre i confini che non esistono – il perimetro in cui è giostrata l’azione non ha di fatto nessun tipo di recinto visibile – c’è il punto focale dell’intero film, presentato in anteprima al Telluride Film Festival e tratto dal romanzo Donne che parlano, scritto da Miriam Toews, ed ispirato ad una storia vera avvenuta in una colonia Manitoba in Bolivia, nel 2011.
E la stessa poetica della scrittrice canadese è la chiave determinante di Women Talking: i suoi personaggi, ha dichiarato, sono ispirati da un senso di libertà. Il chiacchiericcio incessante, che indirizzerà poi la riunione che lega gli eventi, è il viatico iniziale che dovrebbe anticipare il viaggio delle protagoniste, portandole lontano dall’inferno. Necessariamente, e visti gli umori, Women Talking innalza il valore della parola da renderla imprescindibile nell’economia cinematografica, a tal punto da guadagnarsi le nomination più importanti agli Oscar 2023. Miglior film e Miglior sceneggiatura non originale. Del resto, è la parola che accomuna le donne di Sarah Polley, ed è la parola l’appiglio (l’unico) che hanno per combattere – con armi spuntate – la tirannia mascolina di una realtà grigiastra e stantia capace di togliere l’aria, stringendo un cappio già pronto ad irrigidirsi.(…)
(…) Perciò ecco la domanda che monta durante la visione, aprendo degli squarci ideologici, sociali, politici e religiosi, in quanto Women Talking – Il diritto di scegliere si basa ampiamente sul credo e sulla fede, reattiva e reazionaria in base alle emozioni indotte nei confronti delle protagoniste. Protagoniste che, di fatto, formano un blocco dissimile ma unico. La domanda in questione, che aleggia nel film, arriva dirompente: cosa faremmo noi al loro posto? Tradiremmo gli stilemi religiosi – in cui crediamo ciecamente – combattendo l’orrore con tutta la forza possibile, o saremmo disposti ad abbandonare la nostra casa, fuggendo senza più tornare? Una riflessione interessante, applicabile alle convenzioni sociali, alla cattiveria mascolina e, pure, ad un certo facile pacifismo, che si scontra con l’intoccabile individualità.
Chiaramente, all’interno del nucleo femminile ci sono diverse correnti di pensiero, dando al film di Sarah Polley ragione d’esistere: una sotto-divisione che altererà la percezione generale, mantenendo alta l’attenzione, e di conseguenza accrescendo il desiderio di libertà. Non c’è mai uno sguardo pietoso nei confronti delle donne, e anzi c’è un atmosfera velatamente combattiva e di diretta empatia, oltre ad un tacito umorismo che spezza la rigidità austera delle immagini esaltate dalla fotografia color seppia di Luc Montpellier. Se è la sceneggiatura il cuore del film, l’aspetto tecnico sincronizza e completa l’idea della regista. I costumi sono stati realizzati tramite vere stoffe mennonite, ed è la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir (la stessa compositrice degli score di Joker e Tár) a tradurre le immagini in uno spartito vivido e palpitante, componendo una musica che accompagna il senso di speranza che percorre la spina dorsale del film. Perché, nonostante la costrizione, la violenza, l’orrore, l’orizzonte è proprio lì dietro, pronto ad accoglierci con le braccia aperte. L’importante è non perderlo mai vista.