Maura Delpero
Leone d'Argento - Gran Premio della Giuria alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, 2024
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Lucia, Ada e Flavia sono le tre figlie femmine della famiglia Graziadei che ha contato dieci nascite, non tutte purtroppo andate a buon fine, come succedeva nell’Italia rurale all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. I Graziadei vivono nella frazione trentina di Vermiglio, in una casetta in mezzo ai campi e alla neve dei lunghi inverni di montagna. Il capofamiglia è un maestro elementare che si sforza di insegnare ai suoi studenti non solo ad esprimersi in un italiano corretto invece del dialetto che tutti (compresi i Graziadei) parlano a casa, ma anche ad aspirare a qualcosa di più bello e più alto della fatica quotidiana. Quando i Graziadei ospitano un soldato siciliano che ha disertato l’esercito si innesca una reazione a catena che l’unità famigliare dovrà gestire, e che si svilupperà lungo le quattro stagioni dell’ultimo anno di guerra. Vermiglio è l’opera seconda di Maura Delpero, dopo il suo notevole debutto con Maternal, e dà già prova di una sorprendente maturità espressiva che affonda le sue radici nel cinema di Ermanno Olmi, ma ancor di più in una realtà osservata con grande attenzione e restituita con commovente naturalezza. Delpero e i suoi personaggi (si) raccontano con la calma e l’apparente semplicità di un tempo e uno schema di relazioni domestiche ben codificate dal costume sociale e dall’abitudine, ma sempre in procinto di aprire il fianco al nuovo, e non sempre al meglio.
Così Lucia, la bella figlia maggiore dei Graziadei, catturerà le attenzioni di Piero il disertore, Ada cercherà di controllare pulsioni sessuali segrete che la indirizzano verso Agata, la ribelle di Vermiglio, e Dino, il figlio maggiore osteggiato dal padre, alternerà la dolcezza verso i fratelli e la madre allo scarso impegno a scuola e alla propensione ad affogare le sue frustrazioni nel vino. Quello che Delpero descrive è un piccolo mondo antico ancora riconoscibile ma già lontano nella sua gentilezza, nel suo calore famigliare e nell’afflato educativo del padre, pur condito di eccessiva severità e di quel pragmatismo che gli fa escludere dal proseguimento degli studi Ada, volenterosa ma non “portata”. Delpero sa sempre dove posizionare la cinepresa per catturare in modo pudico e olistico la vita di questo microcosmo domestico e agreste, ottenendo da tutti gli interpreti (sotto il coaching sapiente di Alessia Barela), compresi i bambini più piccoli, recitazioni spontanee e profondamente credibili (un unicum nel cinema italiano contemporaneo), e uniformando la maggiore esperienza di Tommaso Ragno (efficacissimo nel ruolo del padre) o Sara Serraiocco con quella del resto di un cast scovato fra le montagne del Trentino Alto Adige.
Al centro di Vermiglio spiccano le figure femminili la cui scarsità di opzioni è manifesta e tangibile, ma che, come dirà Ada, non vorrebbero “essere uomini”, solo avere le loro stesse possibilità. Delpero racconta la loro storia, e quella delle figure maschili loro vicine, senza manicheismi e con grande fedeltà al contesto storico e sociale in cui si muovono: nessuno qui è un prevaricatore o una vittima predestinata, tutti sono esseri umani che vivono la loro condizione come possono, commettendo errori ma anche scelte etiche individuali, messi a dura prova da una guerra che – quella sì – priva tutti di dignità umana e di futuro. Ognuno a Vermiglio “ha bisogno del suo cielo” anche quando le circostanze non sembrano dargliene diritto, e cerca un po’ di “cibo per l’anima”, che sia un disco o un mazzo di fiori, un bacio rubato o uno sguardo carico di desiderio; ognuno incontra ostacoli e dinieghi ingiusti; ognuno trasgredisce un poco, e un poco accetta il proprio destino e quei limiti, invece delle possibilità, che la società e persino la scuola ti “insegnano”.
Delpero restituisce centralità ai corpi e ad una sessualità che sfugge al controllo sociale e che si esprime soprattutto attraverso le donne, anche se gli uomini restano “il timone del carro”. E agli spettatori riserva il privilegio di seguire passo passo il suo racconto, assaporandone il gusto e annusandone gli odori, godendosi la musicalità di un dialetto montanaro e i suoi vocaboli desueti, il calore di una tazza di latte fra due mani giunte o di tanti corpi giovani assembrati in una sola stanza e un letto, anche posizionandosi testa e piedi. Un racconto che si dipana con una comprensione autentica di chi sono i suoi protagonisti e qual è il mondo e l’orizzonte entro il quale si muovono, con la maggiore o minore libertà consentita loro dalle circostanze.
Vermiglio è un film dell’incanto, anche quando veicola esattamente l’opposto. È forse questo l’aspetto più sorprendente ed affascinante del secondo, notevole lungometraggio della trentina Maura Delpero, fresco vincitrice del Leone d’argento – Gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il secondo premio per importanza nella gerarchia del palmarès. (…) In Vermiglio la guerra sembra un’entità invisibile e incomprensibile. Questa tendenza all’astrazione di quello che è concreto in un’altra realtà è evidente fin dall’inizio. Uno dei bambini è profondamente affascinato dalla cartina geografica pieghevole che si distende quasi magicamente aprendo un libro e facendo apparire la Sicilia – allora lontanissima nella testa delle persone – e sulla quale sono disegnate le sue particolarità, come le arance: un luogo lontano, mitico, un po’ terra. È una forma di altrove, ingenua e coloniale. E che tornerà più avanti, quando la figlia piccola entra più volte nello studio del padre. La celebre porta proibita delle fiabe da non aprire mai e che invece lei varcherà fino al punto di aprire il cassetto della scrivania paterna, ovvero la cosa più proibita di tutte.
Il mondo lo si può osservare, filmare, rasoterra o da un vetro controluce: sono molte le inquadrature magiche e raffinate del film. A tratti il rapporto tra il fratellino e la sorellina fa pensare a Fanny e Alexander (1982), il capolavoro di Ingmar Bergman, senza l’elemento soprannaturale, ma con quello religioso. E la deambulazione controluce della ragazzina nello studio paterno fa pensare ai chiaroscuri della casa-museo, imbalsamata e allegoria del franchismo decadente, in cui si muove la piccola Ana Torrent, in uno dei capolavori dello spagnolo Carlos Saura, Cría cuervos (1976). Proprio come nel film ovattato di Saura, la dimensione intima è ammaliante e al contempo claustrofobica, non solo sul piano genericamente familiare, ma anche su quello infantile, o meglio lo sguardo dell’infanzia è veicolo di qualcosa di magico e seducente, ma anche di ripiegato su se stesso, forse anche per rassicurarsi, per proteggersi. Metafora, o specchio, del mondo dei grandi della comunità. Perché tutto si salda sempre alla dimensione collettiva, corale, di una comunità e delle sue fatiche quotidiane, talvolta felici, talvolta laceranti, come le promozioni a scuola e quello che comportano, per maschi e femmine. Qualcuno ha parlato di un film da presepe. Ma in Italia la tradizione del presepe è altissima, quasi artistica, e oltretutto nel film – nella parte invernale siamo vicini al Natale – è il fulcro della comunità: il presepe appare alla fine della prima mezzora per poi tornare ancora, feticcio protettivo a cui tiene in particolare il figlio piccolo di Cesare. In quest’opera di complessa ricostruzione storico-antropologica, che Delpero ha scritto e diretto, non sorprende quindi la scelta di dialoghi in dialetto, anche per sottolineare che in Trentino o in Sicilia l’italiano era una magnifica lingua straniera. Quella che Cesare insegna a grandi e piccoli. Come la musica, altra sua grande passione. Personaggio articolato, contraddittorio, certamente denso grazie a uno straordinario Tommaso Ragno, anche se qui tutti e tutte sono di eccezionale bravura, consacrando così Delpero come grande direttrice di interpreti.
Fuori campo c’è la guerra, e ci sono due soldati ospiti della comunità, di cui uno siciliano. Ospitare quelli che di fatto sono dei disertori è questione di grande dibattito tra i membri della comunità, come quello nella locanda in cui un anziano afferma “che scappare dalla guerra è proprio da vigliacchi”. E Cesare ribatte: “Forse, se fossero tutti vigliacchi, non ci sarebbero più guerre. La vigliaccheria è un concetto relativo”. Sono pensieri molto evoluti e anticonformisti, per l’epoca e il luogo. (…) In Vermiglio, però, la guerra è anche quella causata dal pregiudizio e dalle credenze legate all’onore che in Sicilia falcidiano un soldato che rientra, al pari della famiglia che ha creato e lasciato in Trentino e del futuro di una giovane donna. Ma se le donne sono private della loro essenza, la comunità esprime anche valori alti, come in questo canto religioso: “Nutri la nostra famiglia, i fratelli in guerra. Aiuta i più deboli, e aiutaci a condividere con loro ciò che possediamo”. Vermiglio, che più lo si vede e rivede, e più risplende di bellezza, è un film francescano.