Upon Entry – L’arrivo

Alejandro Rojas, Juan Sebastián Vasquez

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Diego è venezuelano, Elena catalana. Dopo aver convissuto a Barcellona decidono di trasferirsi negli Stati Uniti con il sogno di una nuova vita. Ma all’area immigrazione dell’aeroporto di New York qualcosa non va: i due sono costretti a subire un interrogatorio che metterà in discussione la loro stessa relazione.
DATI TECNICI
Regia
Alejandro Rojas, Juan Sebastián Vasquez
Interpreti
Alejandro Rojas, Juan Sebastián Vasquez
Durata
87 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Alejandro Rojas, Juan Sebastián Vásquez
Fotografia
Juan Sebastián Vasquez
Montaggio
Emanuele Tiziani
Distribuzione
EXIT Media
Nazionalità
Spagna
Anno
2023
Classificazione
Tutti
Attività

Presentazione e critica

Elena e Diego sono una coppia che arriva negli Stati Uniti da Barcellona. Lui è un urbanista venezuelano e lei una ballerina di danza moderna. Entrambi sperano di potersi costruire un futuro lontano dai Paesi d’origine. Fatto scalo a New York, avendo però un’altra destinazione, vengono fermati dagli agenti dell’immigrazione benché siano in possesso di una documentazione regolare.

Un film basato su esperienze vissute dai due registi e sostenuto da due straordinarie interpretazioni. Chi decide di iniziare a vedere questo film è bene che sappia che non riuscirà a staccarsene sino alla fine. Dal momento in cui l’aereo che trasporta i due protagonisti atterra a New York per loro inizia una discesa agli inferi che procede per gradi ma diventa di minuto in minuto sempre più devastante. Non c’è nessuna violenza di carattere fisico (se si esclude una perquisizione che potremmo definire del tutto regolare) ma piuttosto un’inquisizione che erode le psicologie. La denuncia della chiusura a riccio del Paese delle opportunità è esplicita ma, invece di assumere le caratteristiche del pamphlet polemico, entra nelle dinamiche degli interrogatori con il proposito di coinvolgere ma anche di spiazzare.
La scrittura è attenta ai mutamenti anche millimetrici nei rapporti tra chi chiede e chi risponde ma anche (e da un certo punto in poi) soprattutto tra Diego ed Elena. Non solo la privazione di qualsiasi contatto con l’esterno (cellulari spenti) o l’isolamento in stanze (che cambiano perché entra in gioco l’ulteriore elemento di disturbo di lavori in corso negli uffici). C’è molto di più.

Questa opera prima mostra un grande controllo sia dello script che della recitazione mentre ci ricorda che i muri non si ergono solo al confine con il Messico. Anche se in realtà ciò che sembra interessare maggiormente alla sceneggiatura è lo sviluppo dell’accerchiamento e il piacere sadico (non si può definirlo altrimenti) da parte di chi investiga nel poter trattenere degli sconosciuti a proprio piacimento senza mai formalmente travalicare nei rapporti ma di fatto limitandone la libertà. Facendo poi di più. Cioè entrare nel privato delle persone con il pretesto della verifica della regolarità delle procedure adottate per chiedere l’autorizzazione all’immigrazione. È da quel momento che il film si trasforma da messa in scena di un’attività vessatoria ma quotidiana in una sottile ma anche esplicita invasione della vita di una coppia motivata (si scoprirà alla fine se esclusivamente oppure no) dal piacere dell’esercizio del potere. Chi sta al di là del tavolo (o anche, ancor più semplicemente, al di là di un desk alla reception) si sente investito di un diritto che gli consente di negare quelli altrui (anche di un semplice bicchiere d’acqua). Al di là del tema dell’immigrazione è questo ciò che colpisce di un film girato in diciassette giorni e in ordine cronologico, affinché i rapporti che si instaurano tra i soggetti acquisiscano la verosimiglianza più totale. Con il finale poi ci viene sottolineato quanto agli agenti di polizia di frontiera sia consentita l’indifferenza nei confronti di chi hanno davanti indipendentemente dall’esito delle indagini. Per loro è routine. Per gli altri è vita.

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Un territorio marziano, una zona grigia e nebulosa fatta di luci al neon e interrogatori estenuanti, la sala di un aeroporto di New York nell’area destinata al controllo per l’immigrazione. Sono gli ingredienti di Upon Entry – L’arrivo, thriller da camera orchestrato dai registi venezuelani Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez e ispirato in parte alle loro stesse esperienze di vita. Quella di chi, come i protagonisti di questo dramma dalle tinte quasi kafkiane, nel tentativo di costruire un futuro migliore in paesi lontani da quelli di origine, si ritrova in balia di agenti di frontiera inclini a decisioni spesso arbitrarie. Un film indipendente girato in diciassette giorni (e due di prove per gli attori) in uno spazio di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, limitante e claustrofobico dove la tensione sale minuto dopo minuto.

Un dato su tutti: Upon Entry – L’arrivo è un film produttivamente molto piccolo, ma di rara potenza, merito di una sceneggiatura solida scritta con precisione quasi chirurgica, di scelte registiche sempre funzionali alla narrazione e di interpretazioni straordinariamente misurate e giocate sul filo delle parole e del controllo del corpo. Un’opera prima che utilizza facendoli propri i canoni del thriller e che sin dall’inizio (la prima scena si apre con un notiziario che annuncia la costruzione del muro al confine tra Messico e Stati Uniti nell’era dell’amministrazione Trump) rivela le proprie intenzioni: un atto di denuncia del sistema che regola le immigrazioni negli Stati Uniti. Per il resto l’intero film gira vorticosamente attorno ai due protagonisti e agli spazi ristretti nei quali i registi decidono di recluderli: un taxi, un aereo e infine la piccola sala dell’interrogatorio nell’aeroporto di New York. Sono loro la vera forza centripeta di questo raro esempio di come attorno a poche righe di trama si possa costruire una storia ricca di colpi di scena e dal ritmo sostenuto. Elena fa la ballerina ed è catalana, Diego è un urbanista venezuelano che si è da poco trasferito in Spagna. Dopo aver convissuto a Barcellona insieme, i due decidono di trasferirsi negli Stati Uniti (grazie alla Green Card da lei vinta alla lotteria) mossi dal sogno di una nuova vita. Ma giunti negli uffici immigrazione dell’aeroporto di New York affiorano i primi problemi con gli agenti di frontiera che sottopongono la coppia ad un estenuante interrogatorio. Nelle ore successive il destino di Elena, Diego e dei loro sogni verrà messo in discussione dai metodi vessatori delle autorità che cercano di scoprire se la coppia ha qualcosa da nascondere. Il panico prende il sopravvento. La coppia arriva nella “terra promessa” attraverso un volo di linea e con un regolare permesso, ma poco importa: la routine burocratica e l’abuso di potere non fanno sconti a nessuno. Agli occhi degli agenti di frontiera Elena e Diego sono potenziali clandestini e questo basta perché inizi una pratica inquisitoria volta a smontare qualsiasi buona intenzione e a mandare psicologicamente a tappeto i due malcapitati. Attraverso il progressivo restringimento degli spazi intorno, già ridotti al minimo, Rojas e Vásquez mettono in scena il loro isolamento e portano lo spettatore nell’asfissiante esercizio di un interrogatorio serratissimo: niente contatti con l’esterno, via i telefonini, largo a un incalzar di domande snocciolate con implacabile indifferenza, riformulate più e più volte e pronte a violare l’intimità dei personaggi. Un vero e proprio assedio dove i rapporti di forza tra le quattro persone chiuse all’interno della grigia saletta aeroportuale, si sviluppano e si ricalibrano costantemente sotto l’occhio vigile dei registi, anche autori della sceneggiatura.

Se l’intento più manifesto è di realizzare un “dramma della frontiera”, quello meno palese e prevedibile invece è di virare sul dramma intimo quando il dubbio finisce per insinuarsi anche nel rapporto tra Elena e Diego, che potrebbe non aver raccontato tutta la verità sul suo conto. Il potere ha così non solo la capacità di sbriciolare qualsiasi certezza umana, ma anche quella di invadere lo spazio privato e più intimo delle persone, una profanazione della dignità umana, che alla narrazione documentaristica o retorica preferisce il thriller costruito su due prove d’attore superbe: Alberto Ammann (che il grande pubblico ha imparato a conoscere come il Pacho Herrera della serie Netflix Narcos) e Bruna Cusí reggono per un intero film lo sguardo della camera sempre addosso, senza distanze di sicurezza, impauriti, assediati e indifesi prima che finiscano per essere addirittura sospettosi l’uno dell’altro. Il meccanismo che governa la tensione della storia è il frutto della composizione geometrica di vari elementi: da un lato i loro silenzi, gli sguardi smarriti e i tentennamenti, dall’altro l’irrompere di elementi di disturbo provenienti dall’esterno come i continui blackout, i rumori ovattati dei lavoro in corso o gli improvvisi cambi di stanza. Se un tempo la frontiera del vecchio West rappresentava il mito del sogno americano, qui il confine è solo una zona d’ombra che sospende le identità. Simulacro del suo esatto contrario, feroce decostruzione dell'”american dream”.

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