Woody Allen
DATI TECNICI
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Presentazione e critica
Non ci piace ammetterlo, ma il caso, il destino, chiamiamolo come vogliamo, gioca un ruolo cruciale nella vita di tutti noi, anche se non lo ammettiamo. Un tema e un monito che Woody Allen ha affrontato molte volte nella sua carriera, dall’alto della sua caustica ironia da ebreo di nascita, convertito a un ateismo rigoroso. Per il suo cinquantesimo film si avventura negli stessi territori di Match Point, ma da Londra si sposta a Parigi, girando per la prima volta in francese e con un cast tutto locale. È un Allen ormai impossibilitato a girare nella sua New York, che ha contribuito a rendere capitale dell’immaginario cinematografico degli ultimi cinquant’anni, oltre a tutto il resto.
L’Europa ormai è il luogo in cui racconta le sue storie e si nota subito come a Parigi si trovi a suo agio, ben più di Roma, per dire. in Coup de chance, Fanny e Jean sono una coppia perfetta. Almeno così appaiono a tutti: belli, ricchi, innamorati, con un lavoro che amano. Vivono in un quartiere esclusivo, in un appartamento molto bello. Ma anche un po’ algido. Un piccolo indizio che forse dietro alla superficie non tutto fila liscio, o almeno Fanny inizia a rendersi conto di aver abbandonato qualche sogno e molte ambizioni per fare da “bella statuina” al marito in società. Una percezione che non solo viene confermata ma diventa insinuante e impossibile da scansare quando incontra per caso Alain, un compagno di scuola di quando entrambi vivevano a New York. Un periodo che Fanny rievoca con nostalgia, e qui magari il buon Woody Allen ha messo anche qualche grammo di emozioni personali.
Iniziano a pranzare insieme ogni tanto, lui è uno scrittore che gira per il mondo, e le confessa subito che all’epoca era innamorato follemente di lei. Sono passeggiate fra parchi e viali, fotografati da Vittorio Storaro con dei colori ben più caldi rispetto all’appartamento, che sembra sempre più una prigione di extra lusso. Ci sarà anche qualche luogo comune sulla magia di Parigi, per carità, pur se ben radicato nella realtà, ma Alain non poteva che aver affittato temporaneamente, per il suo periodo in città a scrivere un nuovo romanzo, una mansarda sotto il tetto di un palazzo haussmaniano. I due si avvicinano, inutile dirlo, mentre il marito dimostra una gelosia sempre più incontrollata. Allen ama dire di non saper scrivere bene i ruoli maschili, ma in realtà è abilissimo a scriverne di negativi o meschini, come il possessivo Jean. Inutile dire che la sua Fanny è un gioiello di equilibrio fra charme, intelligenza e una sana dose di ansia alleniana. Ma il vero personaggio preso di peso dalla sua filmografia, in un cast impeccabile, è quello della madre di lei, in visita a Parigi ma di casa ancora a New York, che adora il marito della figlia, anche in contrapposizione al precedente coniuge bello squattrinato. Ha ovviamente, almeno all’inizio, paura che questo scrittore possa essere della stessa pasta. In questo Misterioso omicidio a Parigi, Valérie Lemercier è una sontuosa versione transalpina di Diane Keaton.
Crimine e senso di colpa, idillio contrapposto con il brusio dei pettegolezzi di chi ruota intorno alla coppia, altro marchio di fabbrica, per un film lontano dall’essere senile, nonostante i quasi 88 anni del regista, che dimostra di aver acquisito una misura assolutamente essenziale e priva di sbavature. Un classicismo capace di ritornare su situazioni, tematiche e personaggi affrontati in passato, ma dandogli una veste molto godibile, alimentando il piacere di trovarsi contemporaneamente in luoghi conosciuti e di poter seguire una nuova storia. Come fosse un romanzo di Agatha Christie o di Simenon, citato nel film. Il contributo dell’età che avanza è una maggiore dose di noir e minore di battute comiche. Del resto, ce lo ricorda con un titolo alla fine di Coup de chance, contro la morte niente è efficace. Meglio non pensarci.
(…) Un colpo di fortuna conferma una rinata attenzione del suo autore nei confronti dell’impianto visivo, sulla strada di una ricerca formale iniziata già in Cafè Society e La ruota delle meraviglie. Affidata ancora una volta a Vittorio Storaro, la stratificazione simbolica della fotografia si fa qui ancor più densa e riesce con maestria a raccontare attraverso le immagini non solo ambienti, caratteri ed emozioni, ma forse qualcosa in più della storia narrata, ciò che le parole non dicono.
Erroneamente valutato sempre e solo come un “cineasta di scrittura”, Allen più va avanti con l’età e più sembra volersi spingere leggermente oltre nel lavoro sulla messa in scena che non ne vuol sapere di procedere con il pilota automatico. È encomiabile, tra gli articolati movimenti di macchina e i carrelli che seguono i protagonisti, senza sosta, lo sforzo di un regista che persino alla fine della sua carriera riesce ancora a pensare e dirigere sequenze come quella iniziale. E in un cast nel quale non spiccano pezzi da novanta, si riescono comunque a distinguere prove attoriali di rilievo: tra tutti Melvil Poupaud e una Valérie Lemercier a lezione da Diane Keaton – in uno dei ruoli più tipicamente alleniani – abili nel portare i personaggi oltre i prototipi alla loro base e nell’infondere loro, col passare dei minuti, una caratterizzazione personale e umana, una nevrosi condivisa che sta tutta nei dettagli rivelatori delle personalità – tra tutti, ad esempio, il maniacale controllo del marito sui suoi trenini giocattolo, che mostra come trofeo.
Un lavoro essenziale e ancora una volta appassionante, che conferma quanto possano emergere motivi d’interesse freschi e dinamici in un tessuto narrativo ogni volta simile ma soprattutto come siano le minime deviazioni a fare la differenza per evitare che la sua arte arrivi a impantanarsi nella fissità e nella reiterazione stantia. Parigi fa bene al newyorkese così come gliene faceva quella “Grande mela” che, malinconicamente, non eviterà, forse anche in maniera sarcastica, di citare e ricordare con affetto attraverso la voce di Fanny. Indipendentemente dalla grandezza delle opere e dalla lingua parlata, c’è ancora bisogno del cinema di Woody Allen. Con la speranza che sia un au revoir e non un adieu.
Giunto al cinquantesimo film, Woody Allen non si tira indietro e continua a meditare sui temi centrali della sua filmografia: destino, caso e fortuna restano il centro del discorso ma a mutare, adattati al contesto parigino, sono i dettagli, che fanno la differenza. Un colpo di fortuna – Coup de Chance è l’ennesima, riuscita, variazione sul tema, che evidenzia la forza con la quale l’autore riesce a rendere ogni produzione godibile, grazie soprattutto a uno stile e a un ritmo riconoscibilissimi. Maestro nel mescolare i generi – dalla commedia degli equivoci, che proprio il suo cinema ha elevato ancor di più, al giallo – Allen trova nell’equilibrio la sua carta vincente e non si nega una notevolissima indagine visuale e spaziale, supportato da Storaro. C’è sempre bisogno di colpi di fortuna, c’è sempre bisogno di Woody Allen.