Baltasar Kormákur
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Kristofer è un signore anziano che scopre di avere una malattia neurologica degenerativa. Il medico gli consiglia di chiudere i conti in sospeso, così decide di partire e dall’Islanda prima va a Londra e poi in Giappone alla ricerca di una donna che non ha mai dimenticato. In tutto questo, sua figlia, preoccupata, continua a chiamarlo.
Un viaggio suggestivo nel tempo e in culture lontane e diverse tra loro. Un film esteticamente poetico che parla di amore, memoria, radici, discriminazioni, ritorni, malattia. Propone tutto questo Baltasar Kormákur, nel portare sullo schermo un’intensa storia d’amore in modo garbato, raffinato, a tratti ironico. Kristofer, interpretato dal superlativo Egill Olafsson, è il protagonista di un “nostos”, un viaggio di ritorno nei ricordi di giovinezza, che il regista mette in scena attraverso potenti flashback. Lo rivediamo giovane (gli dà corpo, voce e fascino il figlio del regista Palmi Kormàkur), intento a imparare i segreti della cucina giapponese in un ristorante a conduzione familiare. Si scopre segretamente innamorato dell’affascinante Miko (interpretata dalla modella e cantante nipponica Koki), e questo sentimento che nasce si affianca alla fascinazione per la cultura giapponese che contagia chi guarda, come un incanto. Kristofer e Miko hanno culture e storie lontane, insieme sembrano John Lennon e Yoko Ono: l’accostamento non è casuale, chi dirige ci tiene a ricordare l’importanza di un momento politico preciso, in cui imitare certi personaggi era chiaro segno di appartenenza. La Storia entra nella bolla di intimità familiare del ristorante, crocevia di esperienze quotidiane e sguardi condivisi, appena si sfiora l’argomento scottante di Hiroshima e dei traumi dei sopravvissuti alla bomba atomica. Kormakur mostra grande rispetto per le sofferenze del popolo giapponese e sviluppa la sua narrazione con evidente empatia, senza la minima retorica. Anche il tema tutto contemporaneo della pandemia viene affrontato per contestualizzare meglio una storia d’amore fiabesca, lontana 50 anni dal presente.
Una relazione calata opportunamente in una serie di eventi storicamente importanti, con dettagli sulla società del tempo (patriarcato paterno giapponese compreso), eppure nulla appare mai pedante, fuori luogo o didascalico. Unire la poesia alla quotidianità, un lavaggio di piatti a una dichiarazione d’amore è anzi la cifra vincente di un film che non cessa di emozionare e arriva diretto allo spettatore come un haiku. Merito della regia salda e convincente di Kormakur, capace di intrecciare sapientemente piani temporali diversi ed evocare, non senza apprezzabili barlumi di ironia, il tepore della nostalgia. Una nostalgia che attraversa cinquant’anni di vita, percorsi secondo un valore che diventa tatuaggio sulla pelle del protagonista: “Coraggio”.
(…) Touch non è semplicemente la classica storia romantica che ricalca gli stereotipi del genere. Baltazar Kormákur si appropria del romanzo Sotto la pioggia gentile di Olafur Jòhann Olafsson e lo trasforma in un apologo sul coraggio di sapere sfidare il tempo che passa. Il tatuaggio che Kristofer si impone sul braccio sinistro indica proprio questo: in un contesto di barriere, di divieti, di mascherine e di dispositivi di sicurezza dettati dalla pandemia, l’anziano cameriere islandese propone il tocco, l’abbraccio, il bacio, la riconciliazione, la solidarietà (la scena a Tokio con il bevitore giapponese), la memoria storica (la tragedia di Hiroshima, la ricerca del tempo perduto e la spiegazione per una storia d’amore interrotta). La scena in cui il giovane Kristofer intona una classica canzone islandese rivela nel testo l’importanza di non dimenticare e fa scoccare la scintilla dell’innamoramento.
La fotografia calda di Bergsteinn Björgúlfsson (con l’utilizzo delle lenti del grande Sven Nykvist, compianto direttore della fotografia di Ingmar Bergman) esalta i rossi e i gialli della fine degli anni 60 e contrasta con i colori freddi dell’era pandemica. Kristofer è colpito dalle terribili immagini degli effetti catastrofici della bomba atomica su Hiroshima: gli edifici rasi al suolo, i corpi carbonizzati, i cadaveri che riempiono i fiumi creano quella linea di demarcazione tra l’utopia del cambiamento e la realtà collettiva che fa irruzione con orrore nella vita di un individuo. La sindrome del sopravvissuto (hibakusha) deve combattere contro la paura di morire in solitudine (hodokushi). Il viaggio di Kristofer è un piccolo tributo d’umanità in un mondo in lockdown non solo fisico ma soprattutto emozionale.
Presentato in anteprima italiana, commentato dalle musiche di Inga Magnes Weisshappel, Touch è un forte richiamo ad un umanesimo laico travestito da storia d’amore tormentata ma che propone nella lunga distanza un forte insegnamento morale: nello scambio tra culture differenti non può che esserci arricchimento. Viene in mente il metodo maieutico reciproco di Danilo Dolci: ”Ciascuno cresce solo se sognato”.
(…) Giappone e Islanda, entrambi paesi toccati dalla fragilità di un vulcano, come lo è la Sicilia che li ospita a Taormina, sorprende per poesia e multistraticità di temi e riflessioni. Kodokoushi, (letteralmente “morte solitaria”) è un interessante termine giapponese – cioè la paura di morire in solitudine. È inoltre un grave fenomeno in aumento nel Paese del Sol Levante dove le famiglie muoiono in solitudine, anche per le difficoltà economiche e per l’onta di farle vedere. Il Kodokoushi però è anche uno dei motori che spinge il protagonista anziano a ricercare l’amore della sua vita proprio in Giappone. Caso vuole che l’adorato amore, una volta ritrovata, stesse proprio appena uscita dall’ospedale per Covid, a casa sola e malata. Il film del regista islandese gira su tre universi diversi, ma incrociati. Londra. L’Islanda e il Giappone. L’amore è il pivot che unisce i popoli e le usanze ed è arricchito dalla vicinanza a poesia, haiku, cibo, persone. ‘Il touch’ è appunto quel gesto delicato che accarezza le anime degli altri.
Il film è commovente e savio, equilibrato e amorevole, ricco di un’epoca che sembra ormai andata. Nostalgica. Come la memoria del protagonista. Girato poi in epoca Covid, esprime e ricorda tutte le difficoltà i dolori subiti dalle perdite dei cari. Ed è proprio questo aspetto, oltre alla diagnosi di Parkinson imminente, a spingere il protagonista a muoversi nel non dimenticare. Andare a ricercare ciò che lo aveva fatto felice più di tutto: l’amore. Ritrovare ciò che potrebbe perdere definitivamente con la morte. Il tempo è breve e anche il covid ha fatto riscoprire a tutti la potenza della vita e quanto essa vada vissuta nell’imminente. Il film è quindi ricco di sfumature e letture, diventa come una cipolla dai tanti strati che man mano vanno sfogliati per scoprirne la profondità, la verità. Un altro tema originale, poco affrontato nel cinema, sono le donne vittime di Hiroshima e la vergogna di essere state esposte a radiazioni. L’onta che ne deriva, apre tutto un altro capitolo sulla psicologia della malattia e del disastro causato dalla bomba atomica sia sul piano fisico, che spirituale o psicologico.
Le ferite sono indelebili, e come nel caso della protagonista di Touch ne hanno inficiato soprattutto la vita emotiva. Tutti questi interessanti temi l’amore, la guerra, la memoria, la perdita, sono resi attraverso una splendida fotografia, borotalcata, ottenuta con lenti speciali, arroccata su nostalgia, dissolvenza, sbiadimento e sfumature, ottenendo con un sapiente uso della luce, spesso fioca, quel senso di ricordo, o il suo contrario, la sua opacizzazione. Touch è basato sul romanzo Snerting, di Ólafur Jóhann Ólafsson’s, uscito nel 2020 e con grande successo sia di pubblico che di critica diventando il bestseller dell’anno.