Darren Aronofsky
Premio Oscar 2023, miglior attore protagonista (Brendan Fraser)
Premio Oscar 2023, miglior trucco e acconciatura
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Attività
Presentazione e critica
Certe ferite uccidono la mente. Dilagano imperterrite in un oceano di colpe, illusioni perdute: diventano una balena nera, che divora ogni minimo spazio in cui potremmo vedere la luce. Dopo aver vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia con The Wrestler, Darren Aronofsky torna al Lido con The Whale, un dramma in cui il senso di colpa è incapsulato in un corpo strabordante, quello di Charlie, che ha assunto su di se le piaghe di un’esistenza dolorosa, un oceano in cui si sguazza senza muoversi, costretti su un divano che fagocita ogni riverbero di speranza.
La trama, basata sull’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter, è incentrata su Charlie, un insegnante di inglese solitario che soffre di grave obesità e cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente allontanata dopo essersi dichiarato omosessuale. The Wrestler seguiva il tortuoso calvario del personaggio di Randy “The Ram” Robinson, una vecchia star del wrestling che cercava di riallacciare i rapporti con una figlia abbandonata mentre si autodistruggeva sul ring con pugni e calci acrobatici. Non solo ha incoronato il regista americano ma ha anche segnato il ritorno trionfale (anche se di breve durata) di Mickey Rourke ai vertici della recitazione: una rinascita che lo ha portato a sfiorare l’Oscar a Hollywood. Ora, con The Whale, Aronofsky sembra voler ripetere il suo successo con un claustrofobico dramma familiare in cui Brendan Fraser, condannato per anni all’ostracismo, offre un’interpretazione sensazionale. Due lavori sulle fisicità degli attori apparentemente diverse, ma complementari: il corpo come riflesso di mancanze e dipendenze, come autoflagellazione, è un discorso che Aronofsky porta avanti fin da Requiem for a Dream (2001).
Charlie è assistito quotidianamente da Liz, un’infermiera risoluta e integerrima che lo aiuta nella difficilissima gestione della sua condizione fisica precaria, anche se, come dicevamo, questa incommensurabile afflizione affonda le radici in un fitto arazzo di cicatrici emotive. Traumatizzato da una tragica perdita e percependo la fine dei suoi giorni, Charlie cerca di ristabilire il legame con la figlia diciassettenne Ellie, ma il peso del tempo perduto si rivela un fardello difficile da portare: ci sono verità dal passato che è dura affrontare da soli. Eppure Charlie capisce che, se non può salvare se stesso, può almeno tentare di salvare gli altri, il che implica trovare un canale per intercettare il buio dell’abisso ed emergere dalle acque.
Abbracciando una messa in scena più classica e ortodossa, Aronofsky prende le distanze dalla sperimentazione formale e narrativa che ci aveva proposto con Madre! (2017), ma non abbandona l’attenzione verso spazi e situazioni claustrofobiche. Contenendo il proprio estro creativo dal punto di vista formale, Aronofsky si butta a capofitto nella drammatizzazione di relazioni scomposte e brutali, ma anche inaspettate e di breve durata, e che possiamo veramente interpretare solo rifacendoci alla biografia dell’autore del testo teatrale. L’eccesso, la tendenza verso gli estremi di Aronofsky, qui è rappresentata al meglio dal processo autodistruttivo del protagonista: grottesche aritmie e rischi di soffocamento, abbuffate selvagge, cadute, un’immobilità lacerante, anche se il dolore più lancinante per Charlie risiede nel suo cuore. Mentalmente, è lucidissimo, colto, accomodante. La letteratura, insegnata e visitata quotidianamente, è l’unico canale di comunicazione che Charlie ha con il mondo esterno. Nonostante sia un grandissimo comunicatore, si serve però spesso delle parole degli altri per fermare il pericolo, fisico e mentale.
Charlie ci appare come un personaggio toccato fin troppo dalla sventura, infausta circostanza che Aronofsky accentua invitando la maggior parte dei personaggi a trattarlo con disprezzo; è quasi come se Charlie cercasse di indurre chi gli sta intorno a cadere nel disinteresse, proprio perché egli è il primo che sembra non preoccuparsi del suo stato di salute. Tuttavia, pian piano si disvelerà ai nostri occhi il retroscena morale e ideologico di questa nuova “preghiera cinematografica” di Aronofsky, che si aggrappa nuovamente al concetto di fede nel prossimo e all’idea della conquista di una certa luce (o elevazione esistenziale) attraverso il sacrificio.
In questo cammino verso la morte/rinascita, Charlie non è però mai solo: certo, il dialogo con gli altri è difficile, ma c’è sempre qualcuno che vuole entrare in casa. Il delivery della pizza, il giovane evangelizzatore Thomas, la figlia Ellie e perfino l’ex moglie. L’espressività emotiva guida la penna di The Whale e la caratterizzazione di Charlie che, tra un inciampo e l’altro, si consolida come uno dei personaggi che non dimenticheremo facilmente nella prossima stagione degli Oscar.
The Whale dà infatti il meglio di sé quando Aronofsky lascia che Fraser sia Fraser. Sotto i chili di protesi c’è la stessa star sincera e dal cuore aperto che ha conquistato il pubblico negli anni Novanta: questo emerge soprattutto nel rapporto con l’infermiera Liz, veicolo per accedere non solo all’anima di Charlie ma anche alla star che vi è sotto. La dolcezza dell’anima di Fraser emerge lentamente come un potente contrappeso alla brutalità della condizione che lo consuma.
Dall’interiorità più pura passiamo all’immensità celestiale con The Whale, che conserva alcuni dei tratti di scrittura archetipici di Aronofsky ma ci fa un regalo immenso: lasciare spazio alla storia. A quella di Charlie, prima di tutto, di purezza e redenzione, a quella delle famiglie e del loro potere salvifico, e a quella di un regista che si avvicina allo spettatore come mai aveva fatto prima.
(…) A far brillare il film sono sicuramente la superlativa performance di Brendan Fraser, che domina con maiuscolo talento una gamma emotiva vastissima, e quella della giovane Sadie Sink, che arricchisce di mille sfumature una parte non facile da gestire. (…) Il titolo di The Whale, la cui traduzione è «la balena», fa riferimento in modo figurato alla mole del protagonista ma anche al romanzo Moby Dick di Herman Melville (il cui titolo completo è Moby Dick, or The Whale), più volte citato in modo diretto e indiretto nella pellicola.
The Whale è un film di finzione, eppure l’elemento biografico è nettamente presente. L’autore del dramma teatrale nonché sceneggiatore della pellicola Samuel D. Hunter, infatti, ha molti punti in comune col protagonista: ha vissuto a Moscow in Idaho, ha insegnato saggistica alla Rutgers University, è dichiaratamente omosessuale e in passato ha sofferto di gravi disturbi alimentari. Questo fa di The Whale un film solo parzialmente autobiografico. (…) Che The Whale sia sostanzialmente un one-man show è piuttosto evidente; d’altronde la struttura stessa della pellicola ruota attorno al fulcro del protagonista, più di quanto accada nella maggior parte dei film. Brendan Fraser è stato lontano dalle scene per anni a causa di una sfortunata serie di problemi: un grave infortunio, la prolungata assenza dai set e un difficile divorzio lo hanno portato alla depressione e a problemi di peso, i quali hanno finito per tagliarlo del tutto fuori da Hollywood. Con la pellicola di Aronofsky arriva quindi la sua occasione di riscatto ed è evidente come colga con grazia e intensità la rara opportunità di un ruolo che lo spinge ben oltre ogni sfida attoriale precedente.
Nonostante sia sepolto sotto il gigantesco costume stampato in 3D dal make-up artist Adrien Morot (The Lighthouse, M3gan), la qualità della performance che ci regala l’attore di Indianapolis traspare indiscutibile. Col suo vocione potente e gentile e quella fragilità che filtra disperata dagli occhi, Fraser sembra nato per The Whale, tanto da far pensare che nessun altro avrebbe potuto incarnarne meglio di lui il protagonista. Nel cinema di Darren Aronofsky, che pur spazia con disinvoltura tra l’onirico e il naturalista, il tema del corpo umano è una costante che ricorre spesso. In una sorta di strana declinazione verista del body horror, la trasformazione della carne è in sé un incubo, senza che sia necessario immaginare deformazioni fantascientifiche.
Il corpo in Aronofsky è spesso una trappola: scavato da anfetamine e droga (Requiem for a Dream), logorato dagli infortuni (The Wrestler), minacciato dalla propria naturale scadenza (The Fountain), trascinato in terreni sconosciuti dalla gravidanza (Madre!), spinto all’estremo dall’ossessione (Il Cigno Nero) o deturpato dal cibo (The Whale). Nel film con Brandan Fraser questa sensibilità è particolarmente evidente, con Charlie intrappolato da membra che non può fare a meno di accrescere continuando a mangiare senza sosta. Ma tra i tantissimi spunti offerti dal film la grave obesità non è certo il più importante.