Florian Zeller
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
La famiglia usata come una grande tela su cui dipingere con i colori del dolore e del disagio psichico: lo scrittore e drammaturgo Florian Zeller ritrova il buio della sala dopo averci deliziato con The Father e lo fa con un’opera dall’impostazione molto simile alla precedente, nella quale le sofferenze di individui fragili vengono calate all’interno di un nucleo familiare che si trova quindi costretto ad adattarsi alle disturbanti difficoltà comportamentali.
The Son è il secondo capitolo di una trilogia che si chiuderà (probabilmente) con l’adattamento di The Mother, portando al cinema le celebratissime opere di uno sceneggiatore che dimostra di approcciare con molta serietà la Settima Arte, senza però distaccarsi molto dalla messinscena che ha sancito le sue fortune al teatro. Florian Zeller trae ancora una volta il massimo dai suoi attori grazie ad una sceneggiatura densa e carica di emotività, che lascia passare in secondo piano una regia dimenticabile con la potenza di dialoghi da brivido. Lontano dai luoghi comuni che vogliono la gioventù come un periodo di spensieratezza e divertimento, Nicholas vive la propria adolescenza come un peso a tratti insostenibile, soprattutto a causa dell’inaspettato divorzio tra i suoi genitori. Suo padre Peter ha infatti lasciato improvvisamente la moglie Kate per formare una nuova famiglia con la ben più giovane Beth, che gli ha regalato da poco un nuovo figlio da riempire di attenzioni. Nonostante la nuova vita con un’altra donna, Peter non ha però dimenticato il primogenito ed accetta volentieri di ospitarlo in casa per aiutarlo a superare il suo pessimo momento: Nicholas soffre di una malcelata depressione che lo porta a rinchiudersi in se stesso, non ha amici né affetti stabili, ed ha ripetutamente marinato la scuola per rimanere da solo con i propri orribili pensieri. Il ragazzo desidera riavvicinarsi ad un padre a cui è collegato da un rapporto di amore e odio, perché oltre ad incolparlo di aver sfasciato la famiglia senza motivo è ancora soggiogato da un’idolatria prettamente filiale, e non sarà facile vivere nella stessa casa con la donna che – secondo la sua opinione – ha distrutto la relazione idilliaca dei suoi genitori.
The Son racconta il rapporto genitoriale nelle sue sfaccettature più tristi, partendo dall’ovvia incapacità di comunicare che separa diverse generazioni, fino ad arrivare al senso di responsabilità che dovrebbe guidare le figure importanti nello sviluppo di una nuova persona: Zeller costruisce intorno ai due personaggi principali un ordito complesso fatto di ricorsi storici, frasi non dette e dimenticanze diegetiche, creando un contesto che riesce ad approfondire con intelligenza i suoi protagonisti senza dilungarsi in inutili spiegazioni. Le evoluzioni gentili che guidano la trama si susseguono con calma imbastendo un ritmo che cresce col passare del tempo, passando dalla calma turbata da un nuovo ingresso in famiglia fino ad arrivare alla tragedia più opprimente, mentre gli equilibri personali si perdono e lo status quo diventa irrecuperabile.
Nel dipanare questo tipo di sceneggiatura Zeller riprende senza alcun problema l’ottimo lavoro già fatto a teatro, portando sul grande schermo una storia che risulta efficace e coinvolgente anche se inscenata in tre soli ambienti, esattamente come era successo con il suo primo film: dialoghi corposi prendono vita da spunti che spesso nemmeno vengono mostrati, creando contrasti sviscerati a parole dai pochissimi personaggi della storia presenti in contemporanea sullo schermo.
Proprio di fronte all’impeccabilità di una scrittura priva di sbavature, che sfrutta a pieno la “recitazione da camera” da parte del suo cast, stonano appena le brevi scene pensate appositamente per la pellicola – quelle ambientate in luoghi non ricorrenti, evidentemente pensate per riempire le falle di un’impostazione soltanto teatrale – le quali sembrano quasi un corpo avulso rispetto alla granitica compostezza dell’ordito principale.
Se al drammaturgo francese si possono muovere critiche riguardo all’uso a tratti scolastico della telecamera, diventa però obbligatorio elogiare l’incredibile lavoro svolto sui propri attori, perché anche con The Son trae fuori il meglio da un cast che già in partenza prometteva grandissime cose: dalle strepitose protagoniste Laura Dern e Vanessa Kirby, passando per il ruolo estremamente complicato di Zen McGrath che interpreta un ragazzo problematico e sensibile, si arriva alla sensazionale interpretazione di Hugh Jackman nei panni di un padre dalle mille sfumature, portato in scena da un attore che ormai da tempo non vedevamo così intenso e calato nel personaggio. Non è un dettaglio da poco saper gestire e spronare i propri interpreti, ma diventa a dir poco essenziale per un regista che basa l’intera esperienza filmica sulla riuscita della sceneggiatura, e per fortuna (sua e nostra) gli attori sotto la guida di Zeller diventano (o ridiventano) dei mostri di recitazione, capaci di smuovere nel profondo la coscienza del pubblico con un lavoro apparentemente semplice di sguardi, impostazione vocale e presenza scenica. Lo dimostra con estrema accuratezza la breve apparizione nella pellicola di Anthony Hopkins, un’icona a cui bastano soltanto una manciata di minuti sullo schermo per riconfermarsi come uno dei più grandi attori della storia recente e passata.
(…) Come precedentemente mostrato con The Father, il regista ci dimostra di avere sicuramente un tatto particolare nel mostrare le difficoltà dei rapporti familiari, giostrandosi tra i ricordi, utilizzando flashback di momenti di pura felicità che straziano il cuore, a solitudine e chiusura in se stessi, rabbia e frustrazione che provengono dal semplice essere così fragilmente umani.
The Son ci parla attraverso tutti i suoi elementi, ognuno dei quali svolge un ruolo fondamentale per la buona riuscita del film. La regia in primis fa un lavoro eccellente, prediligendo primi piani intensi che si alternano a inquadrature ampie che, a braccetto con la scenografia, ci donano un senso di solitudine immensa, giocando con ambienti metropolitani di città caotiche che però cadono nel silenzio riflessivo dei personaggi che le abitano. In questo senso ci viene da dire che anche la fotografia gioca un ruolo importante, senza farsi spazio come protagonista ma riuscendo a mantenere un’atmosfera sospesa, attraverso il susseguirsi di luci e ombre, ad indicare l’incertezza dei personaggi.
The Son è un film forte, crudo e solido, che riesce a catturare il pubblico che inevitabilmente si ritrova nelle scarpe di almeno uno dei personaggi, sia da figlio che da padre. Il dramma del non sentirsi capiti che affligge la maggior parte degli adolescenti già di per sé complicato, con l’aggiunta del senso di abbandono dato dal divorzio dei genitori, possono portare a conseguenze pesanti la già fragile mente di un ragazzo. Attraverso la scrittura delicata e intima, che gioca soprattutto sul desiderio di amore in contrasto con l’incapacità di comunicare, assistiamo a come a volte l’amore non basta ad affrontare l’infelicità che la vita porta nei momenti in cui ci si sente persi, senza una meta. Il rischio è proprio quello di essere abbagliati dall’amore, dall’affetto, che a volte può condurre a risultati negativi nelle relazioni che ci circondano. The Son è anche una riflessione sull’inevitabilità del ripetere gli stessi errori, di come ognuno di noi sia diverso nell’affrontare determinate situazioni e della difficoltà del cambiamento.
I rimpianti di una vita dedicata alla propria felicità e del fallimento nelle relazioni che ci stanno più a cuore e la frustrazione dell’impotenza di fronte a comportamenti inesplicabili fanno da guida per questa cruda ma onesta pellicola che ci schiaffeggia, manipolandoci come fossimo marionette.
The Son non è sicuramente un film facile da interpretare, nella scrittura sono presenti momenti così intimamente delicati che una piccola esagerazione potrebbe far crollare un intero sistema. Hugh Jackman, che interpreta il padre Peter, dimostra di essere in grado di ricoprire non solo ruoli ruvidi e che trasudano stereotipi, ma anche di sapersi trasformare, in modo sorprendentemente affascinante, in un personaggio dalle mille sfaccettature, dall’uomo deciso e pieno di sé ad uno fragile ed emotivo, disperato, senza esitare e trattenendo un’incredibile veridicità.
In generale, The Son è svolto in modo efficiente, riesce a non cadere nella trappola del film drammatico strappalacrime, toccando tematiche assolutamente contemporanee riuscendo a mantenere un carattere crudo e allo stesso tempo delicatamente struggente. Mentre elaboriamo questa pellicola, speriamo che Florian torni presto con l’ultimo capitolo della trilogia.