The Old Oak

Ken Loach

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In un villaggio del nord-est dell'Inghilterra le miniere sono state chiuse e le persone, in particolare i giovani, stanno abbandonando la terra. È così che quella che un tempo era una fiorente comunità, si ritrova piena di rabbia, risentimento e senza un briciolo di speranza per il futuro. Le case tornano disponibili e a un prezzo economico, offrendo un posto sicuro ai rifugiati siriani giunti in Gran Bretagna negli ultimi anni. Ma come saranno accolti i siriani dalla gente del posto? E cosa ne sarà di The Old Oak, l'ultimo pub del villaggio?
DATI TECNICI
Regia
Ken Loach
Interpreti
Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Chris Gotts, Rob Kirtley, Andy Dawson, Maxie Peters, Lloyd Mullings, Reuben Bainbridge
Durata
113 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Paul Laverty
Fotografia
Robbie Ryan
Montaggio
Jonathan Morris
Musiche
George Fenton
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Francia
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

L’Old Oak è un posto speciale. Non è soltanto l’unico pub aperto in un ex cittadina mineraria del nord est dell’Inghilterra, è l’unico luogo pubblico in cui le persone possono ritrovarsi. TJ Ballantyne lo tiene in piedi con buona volontà ma rischia di perdere una parte degli avventori affezionati quando nel quartiere vengono accolti alcuni rifugiati siriani. In particolare TJ si interessa alla giovane Yara che si è vista rompere, con un atto di intolleranza, la macchina fotografica a cui tiene in modo particolare. Per l’uomo è l’inizio di un tentativo di far sì che le due comunità possano trovare un modo per comprendersi.

Ken Loach ha dichiarato che, considerata la sua non più tenera età, questo probabilmente sarà il suo ultimo lungometraggio. Lo ha già però detto in passato regalandoci in seguito altre opere che restano nel cuore e nella mente di chi ancora conservi anche un minimo di sensibilità. Speriamo che anche in questa occasione si tratti solo di un, per quanto doveroso, allarme senza conseguenze. Perché anche questa volta Loach, con il fedele Laverty, ci regala un film necessario. Entrambi sembrano avere in mente una frase di Abraham Lincoln: “Possiamo lamentarci perché i cespugli di rose hanno le spine o gioire perché i cespugli spinosi hanno le rose”. La cittadina in cui è ambientato il film di spine ne ha tante.

Non c’è più quella che era una comunità che costruiva la solidarietà intorno alla comune operatività (e, quando è stato necessario) alla comune lotta per la difesa del posto di lavoro nell’attività mineraria. Sono rimasti nuclei familiari isolati tra cui sembrano prevalere solo coloro che vivono di recriminazioni e vedono in chiunque altro si avvicini loro un profittatore che vuole togliergli quel poco che gli è rimasto. Laverty, in un’annotazione sul protagonista TJ aveva scritto “TJ ha perso la speranza”. La domanda che lui e Ken si pongono è se sia possibile coltivarne ancora un possibile germoglio. Lo trovano nei siriani che vengono alloggiati in appartamenti vuoti e che sin da subito vengono più respinti che accolti. Loach sin dalle prime immagini ci fa riflettere sul ruolo del documento che si fa memoria. Yara scatta foto al suo arrivo, prima che la macchina fotografica, le venga fatta cadere a terra rompendosi. Nella sala ormai chiusa da tempo che si trova dietro il bancone del pub ci sono, appese alle pareti, foto degli scioperi degli anni Ottanta. L’arrivo di Yara ridà vita e senso non solo a quelle immagini ma anche a quel locale. La solidarietà che nasce dal basso per Loach è sempre stata la chiave di volta sia di storie individuali che collettive. Non gli difetta però la lucidità per rendersi conto che a quest’ultima si oppongano forze disgreganti sempre più attive e invasive (social compresi). È contro questa deriva che fa sì che l’incontro con l’altro non sia più un arricchimento ma rappresenti solo una minaccia, che il suo cinema si fa speranza contro ogni possibile resa. Se poi qualcuno pensasse che Ken, con la lunga sequenza nella cattedrale della città, si sia in tarda età convertito può stare tranquillo. La sua è sempre stata una fede, nonostante tutto, nell’uomo. Questo però non lo ha mai spinto a posizioni manichee nei confronti della religione o dei suoi esponenti.

Fin dai tempi di Piovono pietre aveva dimostrato di saper trovare nel sacerdote l’unica persona ancora attenta alle condizioni del singolo. Oggi, in quella chiesa e con un coro che sta provando dei canti, ci offre una riflessione sull’integralismo musulmano. Perché Loach è stato e continua ad essere un uomo libero, privo di steccati mentali e capace di distinguere. Senza arrendersi mai di fronte ai tentativi, oggi sempre più massicci, di dividere scientemente le persone in ‘noi’ e ‘loro’. The Old Oak (la vecchia quercia) è lui.

 

Mymovies.it

Ken Loach torna a Cannes con un film che nel raccontare gli orrori del mondo mantiene saldo un filo di speranza. Per il regista è sempre stata una necessità quella di portare sul grande schermo il sociale, le sue problematiche in relazione alle condizioni politiche di un paese, l’Inghilterra, complesso e multietnico, una nazione tra le più benestanti del mondo ma in cui la povertà è una piaga più diffusa di quanto si possa pensare.

Questa volta la narrazione ci porta in una cittadina mineraria del nord, un luogo fatto di aspri contrasti e difficoltà quotidiane, dove la svalutazione immobiliare sta colpendo tutti coloro che pensano di poter vendere la propria casa per trovare altrove una migliore qualità di vita. A queste problematiche si aggiunge l’insofferenza di alcuni abitanti verso la popolazione immigrata, persone che arrivano da zone di guerra e che tentano di ricostruirsi una vita in un paese molto diverso dal loro. TJ Ballantyne gestisce un pub, il The Old Oak, in una cittadina mineraria nel nord dell’Inghilterra e conduce una vita fatta di una rodata routine. Un giorno si ritrova ad accogliere un gruppo di immigrati siriani ai quali sono appena stati destinati degli alloggi nelle vicinanze, ma il clima è tutt’altro che accogliente: alcuni membri del quartiere mostrano un rumoroso dissenso, finché uno di loro non sottrae ad una ragazza la reflex che ha in mano gettandola a terra danneggiandola. È così che Ballantyne conosce Yara, una giovane con la passione per la fotografia che, dopo aver passato diverso tempo in un campo per profughi e lì aver imparato la lingua, ora è stata destinata, insieme a madre e fratelli, proprio nel vicinato del pub che l’uomo gestisce. Col passare del tempo la ragazza e altri residenti cercheranno di portare avanti un progetto che prevede l’organizzazione di cene solidali per i residenti meno abbienti, un’iniziativa osteggiata da una frangia conservatrice di abitanti che frequenta l’Old Oak e che vede i nuovi arrivati come usurpatori di risorse. A Ken Loach le tematiche a sfondo sociale sono sempre state particolarmente care, vi ha dedicato buona parte del suo cinema e se veramente le voci sul fatto che sia questo il suo ultimo lavoro sono fondate, non possiamo non pensare che effettivamente questa potrebbe costituire un’ottima chiusura della sua lunga carriera. Ovviamente in cuor nostro speriamo che il regista ci regali ancora altre sue opere nel corso dei prossimi anni, ma The Old Oak sembra quasi un sunto di tutte quelle caratteristiche che hanno brillato nelle sue pellicole precedenti. Questa volta, però, Loach sceglie di parlare anche di razzismo e lo fa attraverso la narrazione del fenomeno migratorio: uomini e donne che fuggono da paesi in guerra, da un regime che li opprime, li incarcera e li uccide. Ad attenderli, però, in Europa c’è un altro tipo di conflitto, sicuramente meno letale, ma comunque pericoloso e subdolo: quella che chiameremmo “guerra tra poveri”, tra individui poco abbienti che non riescono ad accedere a tutte le risorse, che faticano a portare il cibo in tavola e ad occuparsi dei propri figli.

Il regista decide così di servirsi dei particolari per raccontare il contesto: le dinamiche le capiamo dalle piccole cose, da gesti quotidiani e situazioni. Così vediamo la lettera K dell’insegna del pub pendere fino quasi a cadere, i cartelli immobiliari spiccare vicino le abitazioni a schiera, le credenze vuote, dettagli che in effetti fanno la storia proprio come le foto appese nella stanza chiusa del pub di Ballantyne, immagini che raccontano rivolte sindacali e momenti di forte comunità, di lotta per acquisire diritti fondamentali, insieme, perché è dall’unione che nasce la speranza. “If we eat together we stick together” (“se mangiamo insieme, rimaniamo insieme”), questa frase che campeggia sotto le immagini prima citate, costituisce il cuore del film: unendo le forze, condividendo cibo, piccoli beni e competenze è possibile colmare, almeno in parte, le mancanze della politica, una piccola rivoluzione gentile che però può fare la differenza.

 

Movieplayer.it