Ferdinando Vicentini Orgnani
DATI TECNICI
Regia
Durata
Genere
Sceneggiatura
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Attività
Presentazione e critica
E’ di nuovo il poeta Lawrence Ferlinghetti, figura già centrale per la stagione della Beat Generation, ad essere il protagonista di un altro film che ripercorre, qui in forma amorevolmente disordinata, il tratto finale della sua vita in quell’assonanza multiforme con il nostro Paese al quale era legato per via del padre, bresciano d’origine e per ragioni di lavoro emigrato in America all’inizio del secolo scorso. È proprio da una malga delle Alpi venete che il film prende avvio tra gli amici del poeta, che lo ricordano nel giorno del suo compleanno in una cerimonia conviviale del tutto consona al carattere vitale e amabile di Ferlinghetti, oggi scomparso.
The Beat Bomb diventa così un flusso di memorie disordinate che si accavallano tra confessioni di suoi amici e brani di letture di poesie, spettacoli realizzati in Italia con la complicità artistica di noti mattatori come Giorgio Albertazzi e Michele Placido o attraverso una ricostruzione dei tempi della Beat Generation attraverso i racconti dello stesso Ferlinghetti, divisi tra personaggi dell’epoca, Kerouac e Ginsberg, e la genesi della sua mitica libreria luogo di convergenza di energie letterarie e non solo, come ben racconta Joanna Cassidy, attrice per Ridley Scott nell’indimenticabile Blade Runner oltre che grande lettrice e frequentatrice della Beat Generation.
È la natura da zibaldone, da brogliaccio di appunti e sensazioni, di ricordi interrotti, di piacevoli chiacchierate, in una proficua frammentarietà che affascina del lavoro di Vicentini Orgnani che procede apparentemente senza una direzione, ma con una sua precisa intenzione, che è quella di ridefinire la figura del poeta e pittore con un piede in America, nella San Francisco libertaria e liberata da ogni tabù, e un altro nel resto del mondo, con una predilezione per il nostro Paese dove moltissimi amici, più o meno conosciuti per le loro doti artistiche, continuano a ricordarlo e soprattutto perpetuare il suo insegnamento e ravvivare il fuoco dei suoi versi.
In fondo non è un caso che Lawrence Ferlinghetti sia un protagonista così frequentato dal cinema, che è riuscito a rivelarci i tratti più privati delle sue relazioni con gli amici sparsi per il mondo e a confermare le sue doti d’artista della parola e del tratto pittorico con le immagini dei film a lui dedicati e ora con quest’ultimo, così appassionato, offrendoci la possibilità di ritornare a ripercorrere quel percorso biografico, ma soprattutto per sentire raccontare una stagione letteraria e musicale che ha segnato con la sua complessiva ricchezza intere generazioni e che ancora oggi sa affascinare con la sua aria di libertà che si respira come accade, ad esempio, quando si leggono i versi di Lawrence Ferlinghetti.
Lawrence Ferlinghetti, scomparso nel 2021 all’età di 101 anni, è stato il profeta della Beat Generation, sia in qualità di poeta sia come editore degli altri scrittori americani ‘beat’, tra cui Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Spirito cosmopolita per natura (il padre, morto poco prima della sua nascita, era un bresciano emigrato in America, la madre aveva origini francesi), ha sempre vissuto portando avanti la propria visione del mondo, all’insegna di “un anarchismo pacifista e un socialismo umanista”.
In questo docufilm, il regista Ferdinando Vicentini Orgnani ne delinea un ritratto che è il frutto di quindici anni di amicizia e collaborazione, tra San Francisco, la città di Lawrence, e l’Italia, dove amava sempre tornare.
Il documentario procede per frammenti nel delineare una figura fondamentale nella cultura americana del Novecento, rievocando lo spirito della Beat Generation
A che servono in quest’epoca i poeti? Se lo chiedeva Ferlinghetti in uno dei suoi componimenti, “La poesia come arte ribelle”. E in fondo il documentario di Ferdinando Vicentini Orgnani appare come una risposta a quella domanda. Al termine della visione si capisce perché il carico di quella ‘bomba’ non abbia perso nulla della sua forza, del suo anticonformismo rivoluzionario, di cui quella generazione di artisti era imbevuta, a partire dal nome del movimento, rimasto per sempre ambiguo e ambivalente: beat come contrazione di beatific, cioè beato, ottimista, nonostante tutto, elevato da una diversa visione della società, da una spiritualità nuova; ma anche beat come sconfitto, insoddisfatto, a indicare il malessere di quella generazione (“un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo” secondo la definizione di Kerouac) a cui cercare di porre rimedio. E infine il ‘beat’ inteso come ritmo, quello del jazz, incessante e libero, quello di Charlie Parker e Miles Davis, perché quei musicisti facevano poesia con gli strumenti, e da lì, dal jazz nasceva la Beat Generation per poi sfociare nella rivoluzione culturale del ’68.
Non a caso il regista si è avvalso delle musiche del trombettista e compositore jazz Paolo Fresu, e ha scelto per il suo docufilm un impianto narrativo jazzistico, che procede per frammenti non sempre legati, scatti brevi e rallentamenti, prendendo strade improvvisate ma tornando sempre sulla stessa nota.