Tatami – Una donna in lotta per la libertà

Zar Amir-Ebrahimi, Guy Nattiv

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Leila, una judoka iraniana, prende parte al Campionato mondiale di judo insieme alla sua allenatrice Maryam . Leila è intenzionata ad aggiudicarsi la prima medaglia d'oro dell'Iran in questo sport, ma a metà dell'incontro, le due donne ricevono un ordine da parte della Repubblica Islamica, un vero e proprio ultimatum: o perdere o fingere un infortunio. È così che Leila si ritrova costretta a compiere una scelta ardua: fingere di essersi ferita, dopo che Maryam la implora di conformarsi al regime iraniano, o sfidarli entrambi e continuare a gareggiare per il primo posto.
DATI TECNICI
Regia
Zar Amir-Ebrahimi, Guy Nattiv
Interpreti
Arienne Mandi, Zar Amir-Ebrahimi, Nadine Marshall, Jaime Ray Newman, Ash Goldeh, Sina Parvaneh, Mehdi Bajestani
Genere
Thriller
Sceneggiatura
Francesco Piccolo, Daniele Luchetti
Fotografia
Ivan Casalgrandi
Montaggio
Aël Dallier Vega
Musiche
Thom Yorke

Presentazione e critica

Tbilisi, Georgia. Campionati mondiali di Judo. L’iraniana Leile Husseini è in forma straordinaria e batte le avversarie una dopo l’altra. La medaglia d’oro è possibile. Da lontano la seguono il marito e il figlio piccolo, con gli amici di sempre; da vicino, a pochi metri dal tatami, la sostiene Maryam, la sua coach. Ma la possibilità che in finale Leila posso incontrare un’atleta israeliana è sgradita alla Repubblica Islamica. Arriva dunque l’ordine, per lei, di ritirarsi dalla competizione: dovrà fingere un infortunio e abbandonare i mondiali. Oppure trovare il coraggio di prendere una decisione impossibile.

L’israeliano Guy Nattiv e l’iraniana Zar Amir Ebrahimi sono consapevoli della forza intrinseca del conflitto a cui è sottoposta la protagonista e lo portano alla massima intensità, non aggiungendo distrazioni né altri elementi fondamentali al racconto. La lotta fisica è metafora di una lotta psicologica che è anche politica ed esistenziale, e trascende il singolo. Il bianco e nero universalizza quest’idea e materializza la natura estrema del ricattto. Anche la scelta della Georgia non è casuale: paese coproduttore del film, è però anche simbolo di frontiera, tra Europa e Asia, una frontiera che può essere momento di incontro oppure dolorosa sezione. L’essenzialità è la regola e si fa questione di stile. Il bianco e il nero sono anche i colori delle divise delle judoke, mentre l’incontro è materia di concentrazione, forza, velocità, tecnica. Il peso conta, ma il carico sulle spalle di Leila non si può misurare: non con la stessa unità di misura di chi appartiene ad un paese libero. (…) Nei suoi momenti migliori, Tatami raggiunge una naturale compenetrazione tra elementi tematici e formali, con lo spazio del tatami come uno schermo rovesciato o riflesso, l’orologio delle competizioni che fornisce un timing inesorabile e s’impenna nei momenti in cui la protagonista è bloccata a terra e la resistenza che le viene richiesta è massima (pena il soffocamento, fisico e metaforico), e infine l’ambiente unico della palestra, che è luogo protetto ma anche claustrofobico, nel quale s’infiltra il pericolo, onnipresente: sola e macabra rappresentanza maschile in un universo tutto femminile.

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Presa, rotazione, soffocamento: ippon. Carrellate, primissimi piani, dinamismo: maitta. Nessuna retorica, ma tanta azione; nessuna struttura cervellotica, ma tanto cuore. Gli sguardi di universi forzatamente messi contro da una politica sbagliata, come quelli dell’israeliano Guy Nattiv e dell’iraniana Zar Amir Ebrahim, si uniscono insieme dietro la macchina da presa per denunciare ingiustizie, soprusi, minacce; lo fanno ancorandosi alla storia di un’atleta e della sua allenatrice, alla pressione che devono affrontare, al coraggio che devono mostrare. Rimanendo fedeli all’integrità del proprio racconto, abbandonano ogni fonte di distrazione, o di inutile dilatazione narrativa, fuori dallo spazio del tatami, così da colpire ancora più a fondo il cuore e la mente dei propri spettatori, lasciandoli attoniti, doloranti, fuori uso.

Anni di attesa; mesi costanti di allenamento; pochi secondi, una manciata di minuti, poi basta un attimo di distrazione ed ecco che per un atleta tutto viene perso, sfuggendo via, scivolando dalla presa di mani sudate e volti sorpresi. Sul tatami georgiano Leila è una macchina lanciata verso la vittoria. Il suo sudore si mescola alla soddisfazione, le sue mani sono lance che pescano gli avversari per gettarli nel buio profondo della sconfitta. Per un atleta tutto si riduce a pochi minuti, o a pochi ordini. Già, perché nell’universo di un paese assoggettato alla dittatura sono le parole che ti dichiarano sconfitto; sono le decisioni di pochi a spezzare i sogni di gloria di tanti. Nessuna sfortuna, nessun caso: è la paura di un probabile incontro a far partire la macchina dell’ingiustizia e della minaccia. Ma per chi vive di sacrifici, di tensione costante, arriva un momento in cui all’obbedienza subentra l’aspirazione personale, l’ambizione individualista. E così, nello spazio di un tatami divenuto campo di battaglia, Leila da atleta si fa rivoluzionaria. Una trasformazione decisa, inseguita da una cinepresa pronta a farsi testimone di ogni operazione di ribellione, ogni punto ottenuto, ogni sconfitta inflitta e minaccia ricevuta.

Quella di Tatami è la storia di molti racchiusa in quella di pochi; un universo immaginario che si scorda della propria natura fittizia per elevarsi a portavoce quasi tattile di esistenze reali, torture vere, sconfitte umane. Accumuli spazio-temporali di tensione e suspense, le inquadrature sono porte dirette su mondi interiori in perpetuo squilibrio tra la decisione di cedere al ricatto, e farsi arma silente contro il proprio regime. Colti nel pieno dei propri turbamenti, gli sguardi fissi delle protagoniste sono mari in tempesta pronti a straripare; i primissimi piani colgono ogni onda che si abbatte sulla riva dei loro occhi, e nello spazio di bocche che urlano, o mani che si coprono volti stanchi, ma decisi a combattere. Ma più i volti si fanno tesi, più i corpi vengono lasciati liberi di sfidarsi, agire sul tatami, correre lungo corridoi, alla ricerca di un’uscita di emergenza, o di scale circolari che le tengono prigioniere di una coazione a ripetere fatta di minacce e attese, aiuti e gare da concludere.

Come le atlete si sfidano sulle pedane, così il bianco gareggia con il nero, in un testa a testa bicromatico entro cui gli sguardi si fanno più penetranti, le emozioni più profonde, i corpi più pesanti. Colorate da tinte cangianti, Leila e Maryam avrebbero altrimenti perso la loro natura di personalità attecchite all’universo di un realismo fondato sulla scia della minaccia e dell’incubo. Abbigliate di colori, sarebbero risultate più leggere, meno soggette al grido dei mostri. Nel bianco e nero di Tatami vive dunque silente sia l’anima dell’espressionismo tedesco, fatta di una minaccia che incombe inglobando vittime innocenti nella profondità delle proprie ombre, che la dicotomia emotiva di un atleta che si fa spirale di dolore e aspirazione, à la Toro scatenato. Leila come Jake La Motta, ma in contesti differenti. Se l’anti-eroe di Scorsese è chiamato a combattere prima di tutto contro se stesso, l’avversario di Leila è il pugno di una dittatura che non vuole lasciarle spazio di risposta, o attimi di contrattacco. In questo cinema che colpisce, facendosi claustrofobico, si inserisce perfettamente anche la scelta quadrata dell’aspect ratio che fa dell’inquadratura un tatami alla seconda in cui rendere ancora più compressa, intima e ristretta la galleria dei sentimenti lasciati scorrere sullo schermo. La regia si adatta perfettamente ai corpi che insegue, precede, studia per imitarli: si muove nello spazio di azione colpendo a pieno volto e mandando KO lo spettatore tra zoom e carrellate, panoramiche e grandangoli come corpi che cadono, mani che cercano il bavero dell’avversario.

È tutta raccolta qui la potenza di Tatami: nello spazio di un centro sportivo. Niente deve invadere lo spazio principale di azione di una linea narrativa inseguita, sviluppata, conclusa nei minimi dettagli. Ridotti quasi al grado zero, i flashback e i cambi di ambiente si integrano all’intreccio come coronamento di un passaggio, o sottolineatura emotiva di un pensiero, un timore, un’anticipazione mentale di un’azione folgorante sul campo di lotta. È un puzzle dalla bellezza folgorante Tatami; è un assemblaggio di tessere esteticamente ineccepibili e umanamente disarmante, sostenute a loro volta da una narrazione coraggiosa che nel suo farsi collante di raccordi lancinanti, urla e denuncia, colpisce e atterrisce. Nessun megafono, nessun cartello di protesta: ai due registi è bastata una cinepresa donata di pieno movimento e di un corpo, come quello dell’attrice Arienne Mandi (Leila) a cui ancorarsi per affidare a ogni attacco sul tatami un reciproco attacco contro ogni forma di libertà negata e sogno infranto.

Ripresa, inquadratura, suono acuito, o sottratto: sono mani che afferrano e soffocano quelle di Tatami; mani di corpi che volano, ruotano, corrono, mentre gli occhi scrutano e le bocche denunciano. Presa, sgambetto , colpo e contraccolpo: lo spettatore non ha scampo. Tre colpi. KO. Maitta. Fine della gara, inizio di un capolavoro.

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