Hind Meddeb
DATI TECNICI
Regia
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Hind Meddeb è cresciuta tra la Francia, il Marocco e la Tunisia, i suoi due Paesi d’origine. Questo incrocio di lingue e culture le ha donato un modo unico di guardare il pianeta. Nei suoi documentari, osserva le forme di resistenza all’ordine precostituito, filmando dalla parte di chi si ribella. Nel suo approccio al mondo arabo e africano, cerca di abbattere quei pregiudizi che oscurano l’immaginario occidentale. Tra il 2011 e il 2013, durante la Primavera araba, ha diretto Tunisia Clash e Electro Chaabi, due lungometraggi documentari sulla creatività musicale come atto rivoluzionario. Il film precedente, Paris Stalingrad, segue il viaggio di Souleymane, un giovane poeta sudanese sopravvissuto al genocidio del Darfur, che arriva a Parigi.
Sudan, souviens-toi, girato dalla regista francese Hind Meddeb e presentato ieri alle Giornate degli Autori è un documento struggente sugli avvenimenti che tra il 2018 e il 2023 hanno portato il Sudan dal crollo di un regime ad alcune riforme, al colpo di stato e ora alla guerra civile. «Da lì sono scappati tutti – dice la regista – chi in Egitto, in Arabia Saudita, chi in Ciad o in Ghana, ci sono 3 milioni di rifugiati». Parla dei ragazzi e delle ragazze che sono entrati nel suo film, si sono prestati a raccontare le loro storie, la felicità della rivolta e il dolore dell’esilio.
Dapprima li vediamo a Karthoum invadere le piazze e le strade nei primi mesi della «rivoluzione», si chiama così e non è certo comune per una generazione di qualsiasi tempo e luogo poterne viverne una. Hanno facce e nomi. Davanti alla camera fissa si raccontano, mentre le immagini della piazza principale della capitale, occupata per mesi da un assemblea permanente di parole e canti, si mischiano a quelle degli scontri coi militari, dai telefonini, il formato verticale della cronaca. «Il film si ferma ai primi giorni della guerra, nell’aprile 2023 – spiega Hind – si sente il whatsapp di Shajan che mi dice che sono cominciati i combattimenti, si vedono le strade vuote, quelle sono le ultime immagini che ho girato. Le immagini dei telefonini me le hanno mandate le ragazze e i ragazzi, riprese dalla finestra, le sequenze degli scontri sono state trovate sui facebook di alcuni militari, sono un atto politico, le prove dei massacri».
Hind Meddeb, 46 anni, francese di famiglia nordafricana, giornalista con qualche esperienza televisiva, oggi è soprattutto una freelance, interessata a raccontare soltanto quello che conosce secondo le poche regole del cinema di strada, umane più che tecniche. «Avevo fatto un film Paris Stalingrad a Parigi nel mio quartiere e il personaggio principale era un sudanese che dormiva per strada – spiega – ho incontrato il Sudan a Parigi, la rivoluzione era appena iniziata laggiù e coi contatti dei miei amici francesi sono andata a Karthoum». Scopriamo che la rivoluzione sudanese è stata soprattutto caratterizzata dalla musica: il rap mescolato alla poesia civile tradizionale, i graffiti sui muri, le canzoni. Il documentario racconta qualcosa che mette i brividi soltanto all’idea: una vera rivolta generazionale, la vita che cambia, la festa continua.
«Tutti i miei film sono personali – continua Hind – non hanno niente a vedere con il caso, non cerco mai qualcosa che non mi appartiene. Ho fatto un lavoro sull’Egitto perché mia madre viveva al Cairo, mi occupavo di cinema per Arte e così ho conosciuto un regista che mi ha portato dentro un matrimonio, dove ho conosciuto il fenomeno dell’elettrochaabi. Mio padre nel frattempo era in Tunisia, sentivo sempre questo pezzo Messieur Le President un’invettiva diretta a Ben Ali, ed ero talmente affascinata da questo rapper che quando la rivoluzione è cominciata ho voluto incontrarlo». Anche se ha documentato alcuni dei fenomeni culturali più importanti degli ultimi anni nel cuore delle primavere arabe, Hind Meddeb non si definisce un’esperta di musica: «La musica per me non è stata una scelta, solo un caso – spiega – nel mio film egiziano c’è techno perché è quella che si suona nei matrimoni, io cerco e racconto soprattutto la gente».
«Detesto la tv, – si sfoga alla fine della nostra conversazione – non mi ha mai lasciato nessuna libertà vera. Detesto i loro pregiudizi, voglio mostrare le cose come si vedono e non come si immagina che debbano essere, mostrare chi resiste, non i terroristi veri o presunti». Accanto a lei c’è Shajan, una delle sue amiche di Karthoum che l’ha seguita fin qui a Venezia. Parla solo arabo, poi mi dirà che è scappata con la famiglia negli Emirati arabi dove lavora in una località di mare. Promette di dirmi qualcosa di più con un whatsapp che arriva dopo un po’ e dice: «Non è una diaspora! È solo che il mondo ora può vedere il Sudan attraverso di noi, ed è tempo per noi di influenzare il mondo».