Kristoffer Borgli
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Di cosa parli, Sick of Myself, il film ce lo dice subito, in una delle primissime frasi.
Signe e Thomas sono in un elegante ristorante di Oslo, hanno ordinato una bottiglia di vino costosissima e stanno per fare il vento, come si dice a Roma, portandosela via. Lui le dice di uscire con la scusa di aver ricevuto una telefonata. Lei risponde che no, non può, la stanno guardando tutti. “Ma quando sei narcisista, non ti si fila nessuno”, è la risposta di Thomas (senti chi parla, ci sarebbe anche da dire, guardando il resto del film, ma non è questo il punto).
Sick of Myself parla di narcisismo. Di quel narcisismo fatto di brama di attenzione, e di fama, e di immagine, che è uno dei grandi mali della società contemporanea da alcuni decenni a questa parte, e da quando ci sono i social non ne parliamo nemmeno.
Il narcisismo è una malattia, e quindi ecco che l’esordiente Kristoffer Borgli (che ha conquistato un meritato Premio Amanda “l’Oscar norvegese” per la sceneggiatura, ma che gira e inquadra e monta con occhio elegante e intelligente, e impagina molto bene il suo copione sullo schermo) la presenta letteralmente come tale.
L’ansia di Signe – che è peggio di Thomas, ma solo fino a un certo punto: ma, ancora una volta, poco importa – la sua voglia di essere al centro dell’attenzione e delle conversazioni e non solo la ruota di scorta del compagno artista che espone nelle gallerie cool della capitale norvegese, la sua voglia di primeggiare nella coppia, con gli amici, nel mondo è tale da spingerla a fare cose folli e assurde. Già di carattere incline a riscrivere le cose che accadono in base alla sua soggettività e al suo narcisismo, di fronte al successo di Thomas e dopo un incidente rivelatore Signe capisce che, per farsi notare, fingersi malata è la chiave di tutto. Comincia millantando un’inesistente allergia nel corso di una cena, per poi compiere un passo drastico e sconsiderato: assumere di nascosto dosi massicce di un farmaco russo ritirato dal commercio per i suoi gravissimi effetti collaterali che causa sulla pelle delle persone.
E così, Signe riesce nel suo intento, quello di essere al centro dell’attenzione di tutti. O forse no. In ogni caso, a che prezzo.
Ci sono osservatori che non hanno apprezzato Sick of Myself per il suo essere così chiaro, diretto e sfacciato in quello che vuole raccontare. Troppo, dicono.
Non sono affatto d’accordo. Quello di Borgli è un attacco frontale, senza incertezze, portato tanto chiaramente per convinzione da un lato e per adeguarsi a tempi in cui sfumature e senso del tono non sono più patrimonio comune.
Il suo è un film che non è la solita commedia che addolcisce tutto ma una satira che è capace di far ridere un sacco, ma anche di disturbare, e anche di portare lo spettatore – tra una piega del racconto e un’altra – a una scomoda identificazione con due personaggi davvero brutti, antipatici, insopportabili. I mali di Signe (e di Thomas, certo), per quanto elevati a una dimensione patologica e autodistruttiva, sono quelli che in piccolo tutti noi, in qualche modo, ci portiamo appresso: l’invidia, la voglia di farci notare, di affermarci in un mondo dominato dalla superficialità e dall’immagine. I mali dell’ego.(…)
Non si tratta solo del puro narcisimo, della megalomania della voglia di essere la persona più ammirata della stanza, quella che tutti stanno a sentire e tutti guardano. Né del farsi le foto, fiera del suo viso e del suo corpo deturpato, da postare online per ricevere gli “oh povera” da un lato e i “sei bellissima lo stesso” dall’altro, che arrivano sempre ai tempi dell’inclusività diffusa (e l’inclusività è un altro bersaglio, secondario, di Sick of Myself).
Si tratta di quel processo autodistruttivo che in qualche modo ci riguarda. Di quella sete di riconoscimento che porta Signe a domandare infastidita e esterrefatta “ma non sei ammirata?” all’amica alla quale esponeva i suoi tormenti e i suoi conseguenti successi, e che evidentemente non ne può più di tutta quell’egomania.
Poi certo, Borgli è anche risolto e lucido abbastanza di mettere Signe all’angolo, nel finale del film, quando nel confronto/confessione finale con un’amica, questa le rimprovera senza remore quanto sia perverso il suo continuare a presentasi come vittima, e l’autoindulgenza che ha nei confronti di sé stessa. Anche questi sono mali dei nostri tempi: il paradigma vittimario, il giustificazionismo esasperato, il dissolversi psicologico della responsabilità personale.
Ma tutto questo non impedisce poi un finalissimo dove, se la condanna morale è chiara, lo è anche la compassione umana: che in qualche modo non deve mancare mai.
Presentato al Festival di Cannes 2022 nella sezione Un Certain Regard, Sick of Myself – secondo lungometraggio del norvegese Kristoffer Borgli – è una black comedy sull’ansia da prestazione di un desiderio di apparire che appare sempre più una malattia (sessualmente) trasmessa. O meglio condivisa. Una commedia cinica ma non gratuita, anche perché Borgli, più che inserirsi nelle fila peculiarmente scandinave dei fustigatori/moralizzatori della società dei vari Vinterberg e Östlund, sembra maggiormente interessato alle metamorfosi indotte dal virus per eccellenza del contemporaneo: la viralità. Sia in Drib che in Sick of Myself, infatti, vediamo persone inserite in un contesto in cui l’esserci è oramai anteposto all’essere. E questo esserci è per l’appunto virtuale: passa per uno schermo, per una connessione, viaggia mediante fibra, è, letteralmente, etimologicamente virale in quanto contrapposto proprio a un sé reale, esistente, sostanziale. Persone che inseguono i propri simulacri, che non riescono più a percepire se stesse se non tramite la propia immagine riflessa, riferita, condivisa e likata.
Se Amir, il protagonista di Drib, appariva però in qualche modo cosciente di questo meccanismo, osservatore ironico ma anche attore intrapplato della catena di eventi da lui stesso messa in moto – il film si proponeva come un mockumentary su un personaggio “reale” (le virgolette sono qui più che mai d’obbligo) interpretato dallo stesso Amir Asgharnejad, youtuber assunto da una multinazionale di bibite dopo essere divenuto virale per delle risse di strada da lui stesso provocate e rivelatesi poi interamente artefatte – Signe è invece una “ragazza malata” (questa la traduzione letterale del titolo originale norvegese) non tanto o non solo del male misterioso provocatole dall’inquietante farmaco russo da lei clandestinamente assunto, ma di un protagonismo ormai fuori controllo che la porta incontro a conseguenze terrificanti. Tuttavia non è peregrino sottolineare come, guarda caso, la malattia che Signe si procura riguardi proprio la pelle, ovvero l’estremo confine del corpo, quello più proiettato verso l’esterno. Perché tutto, in lei, rimarca un tentativo estremo e disperato di proiettarsi al di fuori di sé, a tal punto che infine la pelle si riempie di piaghe, si lacera e infine cede. Questa pelle troppo sottile e costringente per contenere un’identità sempre più labile e instabile, votata a quella illusoria trascendenza garantita dai follower e dalle condivisioni.
Un film in questo senso dunque cronenberghiano (senza voler suscitare ingenerosi e impietosi paragoni) pienamente calato nella contemporaneità, la stessa che vede il web popolato da giovani ed emeriti sconosciuti che, inseguendo una fama effimera, compiono ogni genere di challenge dagli esiti spesso autolesionistici (ad esempio il caso eclatante della Blue Whale), quando non fatali (le esperienze di autoprivazione dell’ossigeno, denominate black out o chocking game). E cambia poco il fatto che qui Signe si ingozzi di pillole non perché irretita da una di queste gare mortali bandite su internet, ma in maniera del tutto autoindotta. Il sintomo da cui è colta è infatti il medesimo: la necessità di dare prova della propria esistenza, di essere ammirata dagli altri, certo, ma, ancor prima, di essere vista. Ottenendo in tal modo la certificazione della propria esistenza.(…)