Simone Godano
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Simone Godano, al quarto film con Sei Fratelli, continua a dimostrare una certa identità narrativa, capace di seguire e inseguire un nucleo di personaggi dalla forte riconoscibilità. Un’identità narrativa, tra l’altro, dosata e fluidificante, mai ancorata ad un linguaggio stantio, o a compartimenti stagni. I suoi film, infatti, che siano più o meno riusciti (continuiamo a credere che Croce e delizia del 2019 sia, almeno fino ad ora, il migliore), dosano le emozioni, alternando – per quanto possibile – i sorrisi alle lacrime. Sembra una banalità, ma la vita (e di vita si parla) non è tutta bianca o tutta nera: all’interno di un’emozione ce ne sono dentro altre cento, creando di conseguenza una conflittualità perfetta per essere declinata al cinema.)
Come avviene in Sei fratelli che, se fossimo in USA, etichetteremo come dramedy; siamo però in Italia – e questo ha una forte identità italiana, chiacchierona e svagata -, e allora la declinazione generale ricorda una di quelle commedie famigliari di inizio Anni Novanta, tra Monicelli e Paolo Virzì. Non stiamo certo spingendo il paragone ingombrante, ma è chiaro che Sei fratelli abbia in sé un respiro in qualche modo identitario di un certo cinema, avvicinandosi (sarà la location?) anche alle commedie francesi, nel quale ogni sensazione viene esasperata. Ecco, Godano in questo caso è stato bravo a mantenere il controllo della situazione, senza esagerare ma anzi dando al film un suo scopo, pur altalenante. Com’è del resto altalenante una famiglia sgangherata di cui dover rintracciare parole, smorfie e silenzi.
La famiglia in questione, che diremmo allargatissima, è quella di un padre, Alicante Manfredi, che non c’è più. Gravemente malato, e con due mesi di vita davanti, decide di farla finita, buttandosi dal terrazzo dell’ospedale. Questo è l’inizio di Sei fratelli che, come il titolo anticipa, si concentra sui cocci lasciati in eredità a quei sei figli diametralmente diversi. Litigiosi, rancorosi, incompresi e incomprensibili, ritrovandosi nella casa paterna di una grigia Bordeaux, venendo a scoprire che l’eredità a loro lasciata altro non è che un mucchio di debiti e una perla chiamata Luisa. Luisa, come la sesta sorella, che gli altri cinque scoprono di avere solo quando si sta per aprire il testamento. Eccoli tutti insieme, allora: Marco, Guido, Leo, Luisa, Gaelle e Mattia, a cui si aggiunge Giorgia (Linda Caridi), moglie di Marco, e Nadin ultima compagna di Manfredi. Ognuno alle prese con i propri demoni, con i propri tormenti, con le proprie illusioni.
Saranno proprio le illusioni che volteggiano su questo gruppo di famiglia in un interno secondo il soggetto firmato da Godano insieme a Luca Infascelli. Un film che ci tiene a mostrare tanto la tecnica quanto il cuore (la macchina a mano del regista, che diventa quasi un altro personaggio osservante), costruendo la scena seguendo le tonalità della fotografia di Guillaume Deffontaines, per un’evoluzione volutamente sbilenca, e avvolta da un fitto strato di amarissima malinconia. Sei fratelli, quindi, andrebbe letto come un film sul tempo perduto, impossibile da recuperare, e su quanto noi, nel nostro piccolo, e anche in famiglia, siamo indirizzati a mantenere una certa rigidità derivativa dall’idealizzazione del concetto stesso di famiglia.
Spiegato: le anime di Sei fratelli sono in qualche modo succubi dei loro ruoli e delle loro maschere, poco avvezzi all’apertura e al compromesso, rappresentando di riflesso una sorta di specchio della società in cui viviamo. La famiglia Alicante, oltre ad essere larghissima, è anche gelosa, risentita, a volte addirittura volubile e inconsistente. Saranno poi gli eventi a prendere il sopravvento (come la vita ci insegna), pur lasciando sospesi i sentimenti dei personaggi, fotografati in un momento ben preciso, e affidato ad una libertà che segue le interpretazioni del cast, decisamente in parte. In parte, e coinvolto nell’esacerbare e nell’allentare una tensione che, bisogna dirlo, non sempre corrisponde alla volontà della storia, a volte poco efficace nel rispecchiare la genuina irresolutezza dei protagonisti. Più nel profondo, però, Sei fratelli è un film dalle diverse angolature, non tutte coese, ma comunque coerenti con il percorso ideato da un regista che non ha paura di raccontare un’umanità tanto complicata quanto straordinaria.
Nella commedia si alternano momenti di sana ironia a quelli più profondi di dialogo introspettivo.Godano sembra dunque voler dare un volto nuovo a questo tipo di commedia, eliminando quell’isteria ed eccessività interpretativa tipica dei personaggi mucciniani. E’ una “scrittura nuova” come affermato in conferenza stampa dall’ attore Riccardo Scamarcio, che mira a far emergere l’imperfetta verità delle cose.
La scena si divide tra Italia e Francia e le intuizioni registiche sono buone, se non fosse che in alcuni momenti si ha un po’ la sensazione di perdersi e che il meccanismo si inceppi, lasciando intendere, forse volontariamente, tutta la fallibilità della macchina e dell’essere umano. I momenti dei litigi e di chiarimento sono probabilmente tra quelli più riusciti, perché è in quei frammenti che vengono alla luce la verità dei contrasti e la complessità delle relazioni umane.
Se da una parte dunque si ha la sensazione di “non oltrepassare mai la linea”, “Sei fratelli” rimane un film che tiene a mostrare tanto la tecnica quanto il cuore (da notare la macchina a mano del regista, che diventa quasi un altro personaggio osservante, immerso nelle dinamiche familiari). Costruendo una scena che segue le tonalità della fotografia di Guillaume Deffontaines, questa viene spesso avvolta da un fitto strato di malinconia e da una nostalgia dalle tonalità sbiadite, da commedia francese.
In questo ritratto finale dove i sei fratelli si ritrovano a fare il “bagno della liberazione” nel mare non limpido della vita, sorge spontanea una domanda: cos’è che li tiene insieme e li fa rimanere? Probabilmente il desiderio di radici, di sentirsi appartenere a qualcosa o qualcuno. Di essere amati a prescindere, nonostante la rigidità delle incomprensioni. Probabilmente l’eterna ricerca, per citare Gioele Dix in conferenza stampa, della presenza nell’assenza del padre, come Ulisse ha fatto con Telemaco nell’Odissea.E se il lieto fine a 360 gradi non è previsto perché “siamo in un mondo reale, bisogna sapersi accontentare”, questi personaggi riescono comunque a scostarsi dalla staticità dell’immagine e del ruolo familiare che gli altri gli attribuiscono, lasciando emergere nel cinema così come nella vita, parafrasando Deleuze, un po’ di possibile.