Alice Diop
Festival di Venezia 2022, Leone d'argento e Gran premio della giuria
César 2023, Premio migliore opera prima
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
Tribunale di Saint Omer. La giovane Rama, docente di letteratura francese e autrice di un libro sul mito antico di Medea, assiste al processo a Laurence Coly, una donna accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi, su una spiaggia nel nord della Francia. Fonte ispiratrice della sua opera, Laurence (immigrata senegalese, educata dai genitori a essere sempre garbata e composta) agli occhi della giuria e della stessa Rama, si presenta impenetrabile e contraddittoria, un’attrice impassibile la cui deposizione è esemplare fino alla mostruosità. Eppure, mentre il processo va avanti, le parole dell’accusata e le deposizioni dei testimoni sconvolgeranno le certezze di Rama, e metteranno in discussione anche la nostra capacità di giudizio.
“Supplite voi, col vostro pensiero, alle nostre carenze”: è la richiesta esercitata dal coro al proprio pubblico nel prologo dell’Enrico V di William Shakespeare. Una lacuna di stampo teatrale, dettata da motivi di spazio e risorse, che il cinema ha saputo colmare con la forza dei propri strumenti, ma di cui Alice Diop nel suo Saint Omer fa volutamente a meno. Non più elemento che frena lo scorrere del racconto, il processo in Saint Omer è il cuore stesso dell’opera; ogni parola che lo compone è un battito cardiaco che rende viva la pellicola, lasciando che siano gli spettatori a supplire a una sottrazione visiva di ciò che viene raccontato, entrando di diritto nel meccanismo dell’azione. La sala del tribunale di Saint Omer si trasforma così magicamente in un palcoscenico teatrale dove tutti diventano altro da sé: gli accusati e accusanti si fanno attori, i giurati si trascorrano in spettatori attenti, mentre a rivestire il ruolo di regista è ora un giudice che con fare autoritario fornisce le proprie indicazioni autoriali, decidendo a chi dare la parola, chi far salire al banco degli imputati e quando è il momento più opportuno per sedersi e alzarsi. Chiusa all’interno di quello spettacolo del dolore evocato, ma mai mostrato, Rama si concede poche boccate d’aria. I pranzi e i momenti all’interno dell’albergo sono per la donna piccoli intervalli di carattere personale tra un atto e l’altro; momenti intimi, in cui rielaborare la forza della performance a cui si è assistito, stabilendo ponti diretti tra il racconto udito, e gli sprazzi di realtà personalmente vissuti. È l’arte che si fa vita, e la vita che si tramuta in una forma di arte, quella di Saint Omer: un’esistenza fittizia che viene mostrata come vera, e capace di toccare ed evocare memorie e ricordi, dolori passati e timori presenti nell’animo di un’altra esistenza non reale, ma che ci pare così vera, come quella di Rama.
C’è un legame intimo, marcato da una maternità intrisa di dolore, paura e tragedia, a legare la protagonista Rama e l’infanticida Laurence. Donne fragili, segnate da un passato che torna e si ripropone nell’ombra del presente, le due sono entrambe vittime del peso delle colpe dei propri genitori, capri espiatori di un fardello che le soffoca e che inconsapevolmente loro stesse ripetono, in un urobòro materno senza apparente lieto fine. Incapaci di sopportare il fardello, Laurence e Rama vivono la maternità sulle spoglie di Medea: una arrivando al terribile gesto di togliere la vita a quella stessa bambina a cui la vita l’aveva data, l’altra toccandosi il ventre, e tenendo nascosto quell’elemento fetale che inizia a vivere in lei. Segnate dalle colpe delle proprie madri, le due incrociano i propri sguardi all’interno del tribunale, facendo scattare la scintilla. Per Rama si tratta di un momento epifanico: un momento di terrore e calore concretizzatosi in occhi malinconici, movimenti trascinati, e sguardi sempre bassi. Così simili, eppure così distanti, le due donne vengono riprese dalla regista in maniera divergente e perfettamente opposta, nonostante le analogie interiori che le lega insieme, nonostante le medesime paure, nonostante i destini divergenti e che si uniscono nello spazio di un’aula di tribunale.
Nell’universo a metà strada tra un’oggettività quasi documentaristica, e una resa teatrale, il Saint Omer di Alice Diop è una galleria di esistenze reali, perché imperfette e macchiate di sangue, proprio e altrui. La sua è un’inquadratura che si stacca dalla propria natura filmica per assurgere il ruolo di cornice di un quadro di carattere sociale e umano entro cui sistemare con attenzione personaggi granitici, statue parlanti in attesa che qualcuno o qualcosa possa smuoverli per tornare a vivere, respirare, muoversi. La cinepresa è una testa che si concede pochi e centellinati movimenti fatti perlopiù di carrellate e panoramiche dedite ad ancorarsi all’umore dominante e all’animo più sconvolto interamente che compare sulla scena. È un orecchio attratto dall’urlo silenzioso lanciato da un determinato personaggio, nel corso di una selezione umana di esistenze da seguire e meritanti i propri movimenti di macchina, la cinepresa di Diop. La stessa assenza di un accompagnamento musicale nel corso del processo, e nei momenti salienti che lo precedono e lo seguono, riveste tutta l’opera di un angosciante realismo. È una macchina filmica sottratta al gioco evocativo della parola Saint Omer; non vi è nessuna intenzione virtuosistica o tecnica da parte di Alice Diop. La regista lascia che sia il mondo dinnanzi a sé a decidere se rimanere fermo, se muoversi, vivere o congelarsi in un’esistenza apparente; ne consegue un’oggettività disincantata e un’obiettività granitica di sguardo che ammanta di un ulteriore senso di realismo lo spazio colto quasi per sbaglio, tra hotel, tribunali e falle di una mente che lascia aperto uno spiraglio delle proprie memorie. Sono anime in attesa di uno sguardo, una parola, frammenti di ricordi che li smuovano dal torpore che li blocca, i personaggi di Saint Omer. Corpi, come quelli di Rama, o un senso inafferrabile di giustizia, come quello che si vive in aula, che dettano i movimenti di macchina, orchestrando un processo emotivo all’interno dello spettatore, perennemente in ascolto, perennemente in ansia, perennemente attratto da un film che colpisce e mette KO.
In una società votata al consumo bulimico di materiale mediatico, dove tutto è spettacolo, anche un evento privato, un caso di cronaca nera, o una tragedia sociale, la regista Alice Diop destruttura il proprio materiale filmico, riducendolo al grado zero. Nel suo teatro processuale non c’è spazio ad alcuna sovrapposizione mediatica: il suo è un racconto minimale, giocato sulla forza della parola, dove la regia si elimina, sottomettendosi al dominio di una sceneggiatura immersiva e dolorosa, e alla forza emotiva di performance attoriali giocate sulla sottrazione e su un minimalismo espressivo che rende tutto maledettamente angosciante e reale. Nessuno slancio retorico, o di umana passione. Guslagie Malanga nei panni di Laurence è una statua granitica. A muoversi sono solo le sue labbra, canali di ricordi indicibili tratteggiati da barlumi di calore umano. Kayije Kagame, al contrario, modella la sua Rama puntando sulla dinamicità interiore di uno sguardo tanto malinconico, quanto penetrante. Elemento dinamico, il suo è un corpo parlante, che dietro a ogni minimo e debole gesto, nasconde uno tsunami di non detti e segreti tenuti nascosti. Ma cosa si muove soprattutto in Rama è la sua mente, un sistema procedurale di ricordi solo apparentemente rimossi, che il potere evocativo della testimonianza di Laurence riporta indietro con fare disarmante. Con eleganza, e senza stacchi netti di montaggio, la regista ci conduce tra i meandri mnemonici di questa ragazza, ce li rivela, permettendoci di entrare nella sua interiorità per meglio comprenderla e capirla.
Partendo da una semplicità di messa in scena, dove la propria macchina da presa si nasconde all’ombra delle performance e della parola, Alice Diop dirama dall’aula di un tribunale più di mille spettacoli divergenti: quelli di esistenze interrotte, vite marcate di paura, donne e uomini votate al dramma dell’esistenza. È il dramma della vita, quello dove tutto è teatro, e tutti attori e giudici, critici e testimoni.
(…) Attraverso la potenza disarmante dei primi piani-mondo in cui Alice Diop cinge, sospende, osserva da una zona limbale la sua interprete Guslagie Malanda, è lei, Laurence, a interpellare la comunità che le sta di fronte, le figure di rappresentanza per una collettività che l’ha lasciata sola, e che continua ad abbandonarla, ostinandosi a leggerla muovendo da modelli interpretativi radicati in forme di controllo e oppressione di classe, squalificanti, ciechi. Esempio: ma insomma, cosa può aver a che fare, una giovane senegalese, con un filosofo austriaco? Una tesi di laurea su Wittgenstein non poteva che essere una scelta programmaticamente di sfida, un affronto controverso. Laurence Coly è una frode, una manipolatrice, un’aliena cattiva. Gli strumenti d’analisi che la struttura della legge e quella dell’ambiente sociale calano su Laurence Coly tradiscono i propri limiti, la superstizione, il pregiudizio. Non sanno guardare, non sanno aprirsi. Ma Rama sì, e per questo ha paura. Perché sa di condividere con Laurence quella che la magnifica Virginie Efira di I figli degli altri definiva una “sterminata esperienza collettiva condivisa da miliardi di persone”. Dalle donne, co-individue, esseri umani che non sono mai una, ma molteplici realtà in divenire, di una complessità non categorizzabile, che incorpora moltitudini anche oscure. Ogni donna, riflette Saint Omer, è una madre in essere, uno scrigno genetico marchiato dalla propria storia personale, da un’eredità prenatale. E se il sociale entra nella pelle, “si fa biologia, si trasmette da una generazione all’altra” (Sini/Redi), allora non si può prescindere l’una dall’altra, anche, e soprattutto, quando ci si confronta con l’indicibile.