Ritorno a Seoul

Davy Chou

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Freddie ha 25 anni, da molto piccola è stata adottata da una coppia francese che l'ha cresciuta amorevolmente, ma per qualche recondito motivo le sue origini coreane rimangono per lei un nodo irrisolto. In maniera piuttosto fortuita è costretta a trasferire il suo viaggio da Tokyo a Seoul, luogo in cui non riuscirà a ignorare il richiamo delle sue radici e finirà per mettersi alla ricerca della sua famiglia biologica.
DATI TECNICI
Regia
Davy Chou
Interpreti
Ji-Min Park, Oh Kwang-Rok, Guka Han, Sun-young Kim, Yoann Zimmer, Louis-Do de Lencquesaing, Ouk-Sook Hur, Seung-Beom Son, Dong Seok Kim, Emeline Briffaud, Cheol-Hyun Lim, Régine Vial, Cho-woo Choi
Durata
113 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Davy Chou
Fotografia
Thomas Favel
Montaggio
Dounia Sichov
Musiche
Jérémie Arcache, Christophe Musset
Distribuzione
I Wonder Pictures in collaborazione con MUBI
Nazionalità
Francia, Germania
Anno
2022
Classificazione
6+

Presentazione e critica

Certo, quella che racconta Ritorno a Seoul è la storia di una ragazza che, dalla Francia, arriva in Corea alla ricerca dei suoi genitori biologici. Questa è la superficie, che è perfino una superficie spessa, densa, interessante.
Ma, ovviamente – conseguentemente, verrebbe da dire – la storia del film di Davy Chou, una storia dichiaratamente autobiografica, almeno in parte, è la storia di qualcuno alla ricerca della sua identità e del suo posto nel mondo.
Freddie, diminutivo di Frédérique, ha 25 anni quando arriva nel paese dove è nata, ma che non ha mai conosciuto, senza sapere una parola della lingua. Senza conoscere, lei che ama la musica, la musica coreana. Senza, in breve, sapere nulla di quel posto, della sua cultura, delle prassi sociali, delle abitudini. Tanto da rimanerne scottata, in alcuni casi. E però, allo stesso tempo, il suo volto, come gli spiegano i giovani che conosce e che diverranno in qualche modo suoi amici, il suo non è solo un volto coreano, ma corano antico, ancestrale. Profondo.
Freddie è una giovane ragazza dall’identità scissa, fratturata (come la clavicola che si romperà tempo dopo, rimessa insieme da due viti), divisa come sono divise le due Coree.
Il suo primo soggiorno a Seoul, nel corso del quale rintraccia il padre biologico, dal quale però si sentirà distante, delusa, spaventata, non farà altro che mostrarle, e mostrare a noi, il dolore che questa frattura causa a lei, e di riflesso a coloro i quali (il padre, un’amica, un aspirante fidanzato) cercano di avvicinarla.
Due anni dopo Freddie è ancora in Corea, cambiata, cresciuta, indurita, ma ancora piena di confusione. Ha nuovi amici, nuove relazioni, ma ancora in cerca di qualcosa. Di una parte che manca. Di un dialogo con una madre. Eppure. Eppure qualcosa, di quel mondo, di quella parte di sé, le sta entrando dentro e al sta cambiando.
Quanto dopo altri cinque anni Freddie tornerà di nuovo in Corea, le sue questioni sembrano risolte. Quasi. La sua frattura, seppur con le viti, sanata.
Non è facilissimo empatizzare con una protagonista che è dura, respingente, spigolosa, sospesa istericamente tra smanie di vita da prendere a morsi e una tristezza profonda che nasce da una mancanza, magari infinitesimale, ma sempre presente. Eppure, è questa la forza del film di Chou, prima ancora della capacità di gestire il copione, e di utilizzare la forma del cinema in maniera pulita e elegante, mai troppo austera e autoriale e mai troppo carica dei neon del pop.
La forza di un film che ha il coraggio di raccontare che la ricerca della sua protagonista di un posto, di un ruolo, di un contesto, e di un’appartenenza, che poi è la ricerca di tutti noi nel corso di tutta la nostra vita, potrà arrivare solo fino a un certo punto, e non essere mai del tutto completa. Perché per completare noi stessi – momentaneamente, parzialmente – non dobbiamo guardare fuori di noi, ma dentro, a quello che siamo e desideriamo indipendentemente da dove veniamo, o da chi frequentiamo.
E per questo, nel momento di massima solitudine, e di massimo sconforto, Freddie consola sé stessa, e forse si trova, di fronte ai tasti di un pianoforte solitario. Ma manca ancora un pezzo, manca una madre, e anche quando questa madre si paleserà, le cose poi non saranno così semplici.

Comingsoon

Persone e mai personaggi, che fanno il giro emotivo di un film di occhi e di parole (dette e non dette), di colori freddi e poi caldissimi. Potremmo partire dal finale, esempio di cinema tanto coerente quanto spietato. Potremmo partire dal centro, in cui la protagonista – irrigidita, quasi stilizzata – si aggira in una Seoul notturna, avendone ormai preso le inflessioni, i riflessi e le cadenze. Potremmo poi partire dall’inizio, quando la stessa protagonista, arruffata e sperduta, si ritrova per sbaglio (o per caso?) dove tutto è iniziato. Del resto, lo splendido Ritorno a Seoul, diretto da Davy Chou, è un film che va dritto, orizzontale; un film che pensa e riflette nel contesto umano che mette in scena. Una scena ponderata e verissima, agendo sui sentimenti senza che i stessi sentimenti riescano davvero a prendere il sopravvento.
O almeno, fino al brivido di un finale talmente potente nella sua semplicità da farci restare attoniti. Non lo sveliamo, ci mancherebbe, tuttavia è notevole il carico che svuota il regista, francese ma di sangue cambogiano, che per Ritorno a Seoul (presentato a Cannes nel 2022) ha preso l’idea dall’esperienza vissuta da una sua amica adottata, riportando l’incontro con il padre biologico sudcoreano in un documentario del 2011, Golden Slumbers. Un incontro che ha scosso Davy Chou, dandogli l’eccezionale materiale narrativo per un film intimo eppure universale. Così universale che, a guardar bene, potrebbe raccontare la condizione umana, sospesa, ineluttabile e sfuggente. In qualche modo, sorprendente nella sua altalenante e incontrollabile tragicità.(…)
(…) Dietro la storia anormale di una ragazza adottata, Davy Chou riassume lo spazio e il tempo in un film che esalta l’inaspettato, e l’incontrollabile. Lo esalta ponendo lo sguardo su Freddie, protagonista che, scena dopo scena, esplora tutte le possibilità che la vita le avrebbe potuto dare. E lo fa gestendo al meglio le immagini, gli umori, i rumori e i ritmi (grande fotografia di Thomas Favel, in grado di elevare i neon di una Seoul quanto la livida atmosfera lontana dalla Capitale, e quindi lontana dalla modernità), e poi ancora gestendo l’identità sfilacciata di una ragazza sperduta in una cultura che le appartiene biologicamente. La stessa cultura che, poco alla volta, come farà lo stesso regista, imparerà a destreggiare, se non a conoscere, forse ad amare. Dietro, forte e preponderante, c’è la figura materna, resa dal film una sorta di inafferrabile spettro, e che forse indirizzerà inconsciamente la sopravvivenza e la resistenza emotiva della ragazza.
Se i riflessi sociali che hanno a che fare con i ragazzi adottati sono l’architettura portante (squarciando il nostro giudizio sui genitori: relegare i figli ad una vita misera, oppure offrirgli una drammatica opportunità di realizzazione, lontano da loro?), Ritorno a Seoul riflette su tutti coloro che sopprimono le proprie emozioni, su coloro che non distinguono i sogni dall’amore, bloccando la vita prima che la vita possa controllarli. Una condizione umana dormiente, assopita. Fingendo di vivere, e quindi mutare senza evolversi davvero, Freddie è il minimalismo emozionale che non può tollerare l’incontrollabile. Ma, in un gioco amaro e beffardo, svagato nel sue distruttive svolte, Davy Chou concentra le emozioni (di Freddie, e le nostre) proprio per quell’epilogo che vale l’intera visione, esaltando una glaciale delicatezza che supera la finzione cinematografica per diventare glaciale e disperata realtà.

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