Alice Winocour
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Traduttrice dal russo, Mia vive a Parigi con il fidanzato medico Vincent. La sera del 13 novembre 2015, lasciata sola da Vincent per un’emergenza in ospedale, Mia decide di fermarsi in un locale del centro: sarà una delle centinaia di persone ferite ma sopravvissute agli attentati terroristici di quella sera. Per reazione allo shock, nei mesi successivi l’attentato Mia dimentica tutto e nel tentativo di recuperare i ricordi di quella sera e di ridare un senso alla sua vita comincia a ricostruire ciò che ha vissuto, cercando in particolare la persona con la quale ha passato quei tragici momenti. Per Mia sarà l’inizio di un cammino doloroso ma necessario, aiutata da altri sopravvissuti come lei, e in particolare da Thomas, gravemente ferito ma ancora vivo.
La regista Alice Winocour ha vissuto l’orrore degli attentati di Parigi attraverso l’esperienza del fratello, anche lui miracolosamente scampato alla morte: da lì parte per raccontare l’indagine personale di una donna che ha perso tutto. Il titolo originale del film, che nell’edizione italiana riprende quello della versione internazionale, è Revoir Paris, cioè rivedere Parigi. E rivedere, ripensare, ritornare è ciò che Mia (Virginie Efira, premiata con un César per la miglior interpretazione femminile) fa nel corso della sua ricerca, come se dovesse ricominciare da zero la sua esistenza. Parigi è la casa della protagonista del film, il luogo dove si muove con agilità a bordo di una moto, per lei che di mestiere adatta una lingua all’altra, che cerca di aprire agli altri il significato di mondi sconosciuti, ed è invece costretta a vivere chiusa in sé stessa, incapace di farsi capire o al contrario di capire chi la vuole aiutare. Dopo la notte degli attentati, Mia non ha una vita, e dunque – e soprattutto – non ha una città. Parigi nel film è per questo filmata dall’alto o da vicino con strade indistinte o particolari ravvicinati e sfocati (i fiori posati in ricordo delle vittime, gli attimi dell’attentato vissuti da Mia) che sottolineano ancora una volta come per l’orrore non sia uno sguardo corretto, una giusta distanza. Dopo che la morte irrompe nella vita, la realtà perde i suoi connotati, ribalta il senso di ciò che è considerato normale: lo dice anche un’altra sopravvissuta, che nel locale ha visto uno degli attentatori in volto e lo ha trovato tranquillo e spietato: «Sembrava un angelo», dice.
La perdita di coordinate spaziali e temporali (a seguire quel ribaltamento dell’etica perpetrato da ogni massacro di civili), è ciò che del resto contraddistingue i racconti di tutti i sopravvissuti agli attentati di massa (se ne ha un resoconto spaventoso in V13 di Emmanuel Carrère) e a livello cinematografico contraddistingue inevitabilmente quei film che cercano di riprodurne sviluppi ed effetti, a cominciare dal titolo più vicino a Paris Memories, Un anno, una notte di Isaki Lacuesta, che segue lo smarrimento di due sopravvissuti al Bataclan. Rispetto a quel film, pensato come un flusso indistinto e indistinguibile di pensieri ed esperienze intrecciate, la scelta di Alice Winocour è più didascalica, dal momento che la ricerca di Mia avviene in maniera via via sempre più strutturata, fino a giungere a una soluzione.
Aiutanti come Thomas, l’uomo d’affari che Mia ha intravisto prima del massacro e che ritrova in ospedale, o Sara, anche lei sopravvissuta e diventata presidente dell’associazione delle vittime, oppure ostacoli come la sconosciuta che accusa Mia di essersi chiusa in bagno durante l’attacco, scandiscono quello che è un vero e proprio viaggio di ricerca e rinascita. Inevitabilmente, al termine del percorso Mia avrà la sua ricompensa (il suo «oggetto valore», come recitano i manuali di scrittura), e nello specifico l’incontro con l’uomo, il cuoco nigeriano Assane, con la quale si è nascosta per salvarsi la vita. Alice Winocour prova dunque a mettere ordine nel caos interiore di una donna, misurando con fin troppo calcolo e controllo la sceneggiatura del suo film. Forse per questo, nel percorso lineare della sua protagonista, Revoir Paris inserisce delle fratture, delle aperture improvvise, in cui le storie di altri sopravvissuti (un turista australiano, una moglie che ha perso il marito, la figlia di una coppia uccisa) vanno a costruire il ritratto collettivo (purtroppo mancato) di una tragedia che continua a scioccarci e a riguardarci da vicino.
(…) Dopo tre mesi lontana, Mia (una straordinaria, una volta di più, Virginie Efira) torna e si trova imprigionata nella tensione naturale fra oblio e memoria, dimenticare e ricordare, che divide sopravvissuti e testimoni da chi non è stato sfiorato dai fatti, se non mediaticamente, che vorrebbe andare avanti e non ripensarci o riparlarne più. Ma per Mia è immaginabile solo ritrovando un ordine nei fatti dispersi nella memoria, magari in cerca di “un diamante nel trauma”. Per farlo scopre che nella brasserie si riunisce un gruppo di vittime di quella notte, mentre il suo percorso richiede un’esclusività tale da escludere (momentaneamente?) chiunque non abbia vissuto la stessa esperienza. Quindi anche il marito, che arriva a sbottare “avrei preferito esserci in quel cazzo di attentato”, o gli amici. È un cammino composito e cruciale, con le tappe regolamentate dalla psiche in sofferenza, mentre l’ultima persona con cui ha scambiato uno sguardo prima dell’arrivo dei terroristi, interpretato con grande sensibilità ed energia da Benoît Magimel, rappresenta uno degli aiutanti che l’accompagnano nel cammino. Winocour compone una varietà esaustiva di sopravvissuti, da una ragazzina che ha perso i genitori, con cui aveva appena litigato, che non riesce più a separarsi da nessuno senza essersi prima riconciliata, ai sans papier delle cucine, non conteggiati fra i feriti perché fuggiti, dei fantasmi assenti, mentre la sindrome malata di chi rivendica di esserci stato, anche se non nella realtà, la fa da padrone. Sono tutti in cerca di chi è stato vicino in quei momenti, decine di minuti di intimità improvvisa e imprevista, scariche di ormoni del benessere dovute anche semplicemente a una mano tenuta stretta.
Riabbracciare Parigi rivendica un posto in primo piano fra i film francesi – alcuni notevoli – che hanno ripercorso gli attentati del 2013. Winocour evita retorica e sensazionalismo e trasferisce la tensione interna fra la protagonista e la sua memoria in un rapporto con Parigi, capace di anestetizzare la sua anima ferita con la sua natura sempre uguale a sé stessa, indifferente eppure magnifica. Non nasconde il trauma, lo fa emergere semmai a galla, proponendo soluzioni drastiche ma inevitabili, perché la vita non potrà mai tornare al “prima”, ma potrà presentare un “dopo” diverso e stimolante, sempre che si vinca la tentazione alla solitudine interiore, per ritrovare uno sguardo nuovo, grazie al senso di comunità che anche una metropoli, se abbiamo il tempo e la voglia di metterci in ascolto, può regalare.
(…) È un film che si muove tra i frantumi, che trova in Virginie Efira – non a caso premiata con il César per la miglior attrice – l’interprete perfetta per dare voce al silenzio di chi ha perso le parole, penetrare nel meccanismo inconscio della rimozione, restituire le tappe di un percorso di riconquista di sé che significa anche fare i conti con i fantasmi.
Winocour dice di essersi ispirata a Cleo dalle 5 alle 7, con la protagonista travolta dal marasma della città, ma la sua Mia è anche desiderosa di capirla, quella città fotografata come un limbo tra il crepuscolo e le tenebre, un perenne interno notte in cui nuotare in apnea per salvare se stessa e il senso di comunità.
Ha una bella grana, Riabbracciare Parigi, una storia di passeggeri notturni che proprio nel suo rincorrere le luci trova un pur facile simbolismo (fotografia di Stéphane Fontaine), certo un po’ ridondante nella seconda parte che sembra confondere l’avvitarsi con l’aggrapparsi e comunque efficace nel tentativo di rielaborare il trauma attraverso i gesti concreti senza cedere alla trappola dell’intellettualizzazione. E con una parte finale commovente che colpisce per l’equilibrio tra evocazione ed empatia.