Sofia Coppola
Venezia 80 - Premio Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Cailee Spaeny
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Quando Priscilla Beaulieu conosce Elvis Presley ha quattordici anni e non è mai uscita con nessuno. Lui invece è la star del rock’n’roll, con il mondo e le donne ai suoi piedi, ma ha da poco perso la madre, ha nostalgia degli Stati Uniti e si domanda se quel mondo si ricorderà ancora di lui, una volta finito il servizio militare. Il re confessa la sua vulnerabilità alla bambina con i tacchi, le appoggia la testa sulla spalla, la richiama, la invita a Graceland, la sposa. Priscilla diventa la principessa di una fiaba, solo che in questa storia, la sua storia, non ha voce in capitolo. Sofia Coppola porta al cinema l’autobiografia della moglie di Presley (scritta con Sandra Harmon) per raccontare la versione di Priscilla, l’altro lato del disco d’oro, che comprende anche i capitoli della solitudine, della gelosia, della rinuncia all’autonomia minima che le sarebbe derivata dal fare un lavoro, della richiesta – affatto reciproca – di esserci sempre, per lui, abbigliata e acconciata come piace a lui, nel rispetto dei suoi tempi, delle sue passioni passeggere, del volere inappellabile del Colonello che gli fa da manager e demiurgo. La sua storia era rimasta in ombra, eclissata dall’icona abbagliante del marito, e la Coppola di quell’ombra fa la cifra stilistica del film: sempre un po’ oscurato dal punto di vista fotografico, perché Priscilla vive dietro le tende tirate, nel privato della camera da letto, lontana dai set, dentro l’automobile (e l’unica volta che, fidanzata-bambina, gioca in giardino col cane, viene rispedita subito in casa). Elvis è tenero, innamorato, e ha bisogno di lei, ma Priscilla è comunque una prigioniera, di quel sogno e di quel tempo: è questa la versione di Sofia Coppola, che rilegge il soggetto di partenza facendone il racconto di un’emancipazione femminile (…).
Ci sono spesso, anzi quasi sempre, delle ragazze sole, profondamente sole, nei film di Sofia Coppola: la giovane moglie a Tokyo di Lost in Translation, la regina prossima alla decapitazione a Versailles (Marie Antoinette), la figlia della star del cinema trascinata nel mondo dal papà (Somewhere). Ma questa Priscilla è la più sola di tutte. Priscilla è la moglie bambina di Elvis, il cognome non serve. Interpretata da una perfetta Cailee Spaeny, Priscilla è una teenager annoiata quando conosce il re del rock’n’roll (Jacob Elordi, in un’interpretazione molto più dark e sottotraccia rispetto all’Austin Butler del film di Baz Luhrmann), in Germania. Lui, già famosissimo, sta facendo il servizio militare, lei è figlia di un ufficiale e, come le altre eroine citate dei film di Sofia Coppola, vive in uno spazio fisico e affettivo privilegiato ma terribilmente angusto, anzi claustrofobico. Tratto dall’autobiografia di Priscilla Presley, Elvis and me, questo film è idealmente la soggettiva di una giovane donna folgorata da una parte dalla celebrità di Elvis e dall’altra da una fantasia romantica da romanzo rosa, quei romanzi che non lasciano mai capire una grande verità che sarebbe utile conoscere: a volte ci si innamora di chi ci ama o di chi sembra chi ci ami. Sofia Coppola avrebbe potuto ritrarre Elvis come un manipolatore (per non dire di peggio) e Priscilla come una vittima, ma non lo fa. Piuttosto mostra (saper mettere in pratica il motto “show, don’t tell” è sempre un segno di grande intelligenza narrativa) come il loro rapporto sia stato sbilanciato (e non solo perché c’erano dieci anni di differenza) attraverso piccoli momenti di vita. Elvis, che come sappiamo era a sua volta manipolato da altri adulti, tratta Priscilla come una bambolina di carta da vestire e accessoriare. Le sceglie gli abiti, il trucco, i capelli. Nell’individuare i dettagli che mostrano le trasformazioni di Priscilla negli anni, Coppola (e la sua straordinaria costumista) Stacey Battat danno il meglio. Guardate anche solo la pettinatura: quando Priscilla diventa madre di Lisa Marie (quindi ufficialmente adulta e ufficialmente regina) la cotonatura dei capelli è altissima, immensa, sproporzionata: una corona pesantissima da indossare, proprio come le parrucche di Marie Antoinette. Quando Priscilla prende coscienza e se ne va, il segno è che per la prima volta la vediamo indossare un paio di pantaloni. Il film ha una coerenza totale con la filmografia e l’estetica di Coppola ma soprattutto riesce a esprimere alla perfezione la contraddizione, il bilico, la frattura di Priscilla (di tante donne, di quell’epoca e non solo) sul ciglio del burrone, non ancora pronte ad emanciparsi.
(…) Coppola si adopera nel mostrare Elvis senza necessariamente esprimere un giudizio, proprio come Priscilla non percepiva il suo essere in una relazione abusiva. Elvis è una superstar, una creatura inconoscibile, che si tiene sempre a una certa distanza da quella che, su carta, è sua moglie. Che sia la ragazzina sognante o una giovane donna in crisi, il nostro sguardo combacia con quello di Priscilla; la lettura delle sue circostanze è totalmente nelle nostre mani. Sarebbe difficile trovarlo un ritratto lusinghiero; il fatto che Elvis fosse manipolato dal Colonnello Tom Parker non toglie che a sua volta fosse un egoista manipolatore. In una scena in particolare, vediamo un cagnolino circondato da una staccionata bianca, un regalo per Priscilla, ma anche una chiara metafora: anche lei era intrappolata in una vita apparentemente perfetta, una gabbia dorata. Anche lei non era altro che un animale da compagnia da coccolare e sfoggiare con i suoi amici. Nell’interpretazione eccellente di Cailee Spaeny, è particolarmente pregevole la sua capacità di mettersi credibilmente nei panni e nei modi di fare di una ragazzina. Questo avviene di sicuro in concerto con i costumi e il make-up: in una sequenza in cui Elvis sta scegliendo come vestire e fare i capelli a Priscilla, Spaney sembra una bambina che gioca a travestirsi, microscopica e inquietante in broccati e boa di piume. Elvis si circonda costantemente di “yes-man”, e Priscilla è solo un accessorio. Al contrario, l’Elvis di Jacob Elordi è una figura torreggiante, la cui presenza fisica rispecchia la sua aura di controllo totalizzante (Elordi è alto due metri: in questo caso li usa proprio tutti). A differenza dell’Elvis languoroso e seducente di Austin Butler in Elvis, questo è un uomo ambiguo, un momento generoso e tenero, l’altro distante e violento. È sempre circondato da una frotta di amici, che sembrano a loro volta fungere da respingente – quando non lo sono i suoi tradimenti, i suoi tour mondiali mentre Priscilla se ne sta a casa, le sue passioni pseudointellettuali che sua moglie non può certo capire.
Priscilla, come in effetti suggeriscono titolo e premessa, è il totale opposto dell’opera agiografica di Luhrmann. Non è un racconto pieno di luci scintillanti e uomini sudati; se vediamo Elvis sul palco, lo vediamo di spalle, senza un solo accenno alle sue canzoni. Le atmosfere di Coppola sono soffuse, intime; la storia di Priscilla inizia come un sogno a occhi aperti, la parte magica una fiaba. È solo a mano a mano che scivola nell’età adulta e perde la sua innocenza che noi, con lei ci ritroviamo nel mondo reale, e tutti gli aspetti più oscuri del racconto diventano preponderanti. Se Elvis è inconoscibile perché non si lascia avvicinare, Priscilla lo è perché non ha mai avuto tempo di affermare la sua identità; la vediamo crescere e prendere coscienza di sé in un contesto che le strappa continuamente ogni frammento di individualità.
Senza accesso al catalogo musicale di Presley, Coppola deve fare altre scelte musicali – ed è proprio nella scena in cui Priscilla si riappropria della sua vita che c’è il needle drop più delizioso e significativo. Priscilla infatti sale in macchina e si allontana sulle note di I will always love you nella versione originale cantata da Dolly Parton. Negli anni ‘70, Elvis le propose di ri-registrare la canzone, tuttavia per fare questo voleva acquisire il 50% dei diritti di pubblicazione – ma Parton si rifiutò di cederli. È l’accompagnamento perfetto per la scena in cui finalmente Priscilla decide di non dargliela sempre vinta nonostante, appunto, lo avrebbe amato per sempre.