François Ozon
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
È insieme sincero e costruito il nuovo film di François Ozon, una cifra che ben si adatta alla filmografia di un regista eclettico e multiforme, da sempre abile nell’ingegnerizzare la poesia della materia cinematografica.
Peter Von Kant rappresenta il suo omaggio ultra-dichiarato al film originale e alla figura tutta di Fassbinder: da Petra a Peter, Ozon cambia il genere del protagonista e apre degli squarci nel tessuto di un cult del 1972, che i quattro atti teatrali e il singolo appartamento riempiva di melodramma lesbico. Mettendo in primo piano il corpo esibito di Denis Ménochet e trasformando in regista la stilista dell’originale, Ozon usa il testo come un tramite per raggiungere Fassbinder stesso ed esplicitare quegli elementi personali che nel film erano sublimati dall’artificialità camp del contorno. Un’operazione, come al solito per Ozon, condotta con astuzia e superbo mestiere (e soprattutto con un amore genuino per Fassbinder, ritratto in foto oltre che in filigrana drammatica), ma che rappresenta giocoforza una chicca per gli appassionati, il cui complesso gioco di specchi e ammiccamenti si perde in un vortice di referenzialità agli occhi dell’ampio pubblico.
Rimane un divertissement ricco di spunti, primo tra tutti la performance di Ménochet che trova un ruolo in grado di mettere in discussione la sua intensa fisicità e trovare nuovi sfoghi al suo lato più vulnerabile. E poi, ovviamente, l’opulenza selvaggia dei costumi, del trucco e dei capelli, la volubilità cromatica della fotografia, e la location unica dell’appartamento in cui perfino i muri raccontano una storia. Come si può non divenire pazzi d’amore e desiderio in un contesto del genere? E come si può poi resistere al dolore e alla rabbia che ne consegue, e che non risparmia né madri né figlie?”. Sono una star, ma sono anche umana” dice la Sidonie di Isabelle Adjani, l’unico personaggio capace di rimanere al di sopra dell’ossessione e della schiavitù emozionale. Forse perché tanto costruita da risultare sincera, un’icona nel senso più puro e tecnico del termine. Una nota anche al silenzio mobile di Karl e del suo interprete Stefan Crépon, che già tra tv e cinema si era fatto notare per l’incredibile combinazione di fisico minuto e occhi esorbitanti. Ozon li sfrutta alla perfezione e Crépon crea un bozzetto di studio cinetico – tra postura ed espressione – di immediata presa. Mimo e mimetico, Ozon esprime amore attraverso la rilettura, in un atto di suprema auto-indulgenza che fa felici gli appassionati e lascia agli altri delle interessanti questioni aperte, ad esempio su quanto sia camp rivisitare il camp.
“Each man kills the things he loves”, ogni uomo uccide le cose che ama, scriveva il grande Oscar Wilde e queste parole cantava la voce roca e sensuale di Jeanne Moreau in Querelle, da molti considerato il testamento spirituale, uscito postumo, di Rainer Werner Fassbinder, la cui locandina è rispecchiata nel poster di Peter von Kant. La colonna sonora perfetta per la vita del geniale regista, che per amore ha sofferto e molto, probabilmente di più, ha fatto soffrire. Nel bellissimo omaggio, colmo di citazioni, tra la rilettura di Le lacrime amare di Petra von Kant e il biopic che gli dedica François Ozon, a cantare la canzone, stavolta in tedesco, Jeder tötet was er liebt, è Isabelle Adjani nel ruolo della diva lanciata dal regista, Sidonie. Se infatti inizialmente, per chi vede il film in originale, può sembrare straniante sentire i protagonisti parlare in francese, Ozon fa spesso ricorso alla lingua tedesca, regalandoci anche una ninnananna, Schlaf, Kindlein, schlaf, cantata da una delle protagoniste del film originale, la grande Hanna Schygulla. La storia, essenzialmente, è la stessa de Le lacrime amare di Petra von Kant, così come è l’ambientazione, di impianto teatrale come il film che Fassbinder trasse dalla sua stessa pièce, col rapporto sadomaso del protagonista col suo assistente e la follia d’amore per un giovane uomo che lo porterà alla disperazione, solo che al posto dell’algida e crudele stilista di Margit Carstensen c’è lui, Peter, che altro non è che Fassbinder, perché Ozon non fa che portare alla luce quella che è una delle storie più autobiografiche del regista tedesco, che ha spesso affidato ai personaggi femminili il compito di incarnare le proprie vicende sentimentali.
Nel documentario intitolato semplicemente Fassbinder, uscito solo l’anno scorso da noi, le persone a lui più vicine ne raccontavano anche le tragiche vicende amorose, in cui spesso aveva svolto il ruolo del carnefice. E’ così che quest’uomo di successo, prepotente e volitivo, un gigante nel fisico e nell’ego, si riduce a uno straccio per amore di un giovane e bellissimo prostituto, che fa diventare una star e da cui viene poi abbandonato, mentre schiavizza al tempo stesso il suo assistente che lo adora e subisce in silenzio. Peter von Kant alterna momenti di grande ironia e divertimento ad altri di profonda emozione: quando entra in scena Hanna Schygulla è come se quel cinema, quelle storie e quei personaggi straordinari tornassero a vivere mezzo secolo dopo, a ricordarci di quando il pubblico accoglieva a braccia aperte opere così dense di vita e passione. Ritrovare una delle attrici simbolo del “nuovo cinema tedesco”, che da femme fatale si trasforma qua in madre amorevole e insultata dal figlio disperato assieme alla nipote, desta in chi ha vissuto quegli anni di straordinaria vitalità cinematografica un senso di riconoscenza.
Ci colpisce moltissimo l’eccezionale performance di un attore potente come Denis Ménochet, che si mette a nudo, letteralmente e psicologicamente, e veste con aderenza i panni reali indossati e resi iconici da Fassbinder: la camicia rossa col gilet di pelle, gli stivali, il completo bianco… il fantasma del regista prende vita e si reincarna nel corpaccione di un uomo che riesce perfino ad assomigliargli fisicamente, per quanto diversi i due siano nella fisionomia. Cocaina, alcool e farmaci sono i rimedi per una pena d’amore imprevista, quando il grande seduttore viene sedotto e manipolato e il pensiero del bellissimo corpo nudo dell’amante, riprodotto su gigantografie alle pareti, in un altare laico alla bellezza, sia posseduto da altri, diventa insostenibile. Perché per quanto la corazza della fama e del potere sembri proteggere dal dolore della dipendenza, non può niente contro la dirompente forza dell’amour fou, che non è un sentimento positivo ma una tempesta emotiva che nella mente del regista richiedeva, come il suo cinema, il raggiungimento di una perfezione impossibile, in un’ansia di vita che lo avrebbe portato troppo presto alla fine. Con questo film Ozon ha fatto un vero miracolo: prendere un capolavoro, rendergli omaggio e trasformare il cinema sul cinema nel ritratto amoroso di un genio tormentato, che ha declinato a sue spese le parole della canzone “Ogni uomo uccide le cose che ama”.