Parthenope

Paolo Sorrentino

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Il lungo viaggio della vita di Parthenope, dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Un’epica del femminile senza eroismi, ma abitata dalla passione inesorabile per la libertà, per Napoli e gli imprevedibili volti dell’amore. I veri, gli inutili e quelli indicibili, che ti condannano al dolore. E poi ti fanno ricominciare. La perfetta estate di Capri, da ragazzi, avvolta nella spensieratezza. E l’agguato della fine. Le giovinezze hanno questo in comune: la brevità. E poi tutti gli altri, i napoletani, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, disillusi e vitali, le loro derive malinconiche, le ironie tragiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sa essere lunghissima la vita, memorabile o ordinaria. Lo scorrere del tempo regala tutto il repertorio di sentimenti. E lì in fondo, vicina e lontana, questa città indefinibile, Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e poi sa farti male.
DATI TECNICI
Regia
Paolo Sorrentino
Interpreti
Gary Oldman, Celeste Dalla Porta, Silvia Degrandi, Isabella Ferrari, Lorenzo Gleijeses, Peppe Lanzetta, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Stefania Sandrelli, Alfonso Santagata, Francesca Romana Bergamo, Dario Aita, Paola Calliari, Biagio Izzo, Nello Mascia
Durata
136 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Paolo Sorrentino
Fotografia
Daria D'Antonio
Montaggio
Cristiano Travaglioli
Distribuzione
PiperFilm
Nazionalità
Italia
Anno
2024
Classificazione
6+

Presentazione e critica

Parthenope è una incantevole giovane donna nata dalle acque che seduce ogni uomo che incontra, persino il fratello Armando, suo primo e indimenticabile amore. Parthenope è anche la sirena al centro del mito fondante della città di Napoli che, come scriveva Matilde Serao nelle Leggende napoletane, “vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni, e corre ancora sui poggi, erra sulla spiaggia, si affaccia al vulcano, si smarrisce nelle vallate”. E la protagonista di Parthenope di Paolo Sorrentino fa esattamente questo, perdendosi continuamente e attirando a sé scrittori omosessuali, docenti universitari, prelati addetti ai miracoli e boss della camorra. Ma il più devoto resta Sandrino (col diminutivo che Sorrentino affida ai suoi alter ego), amico fin dalla perfetta estate in cui lui e la sua sirena, e Armando con loro, “sono stati bellissimi e infelici”.

 

Come può raccontare Napoli un suo figlio che l’ha lasciata alle spalle tanto tempo fa e che ora, all’avvicinarsi dell’età matura, acutamente la rimpiange, amandola e detestandola nello stesso respiro?

Parthenope prosegue il viaggio a ritroso di Paolo Sorrentino verso la sua città natale lasciato in sospeso con È stata la mano di Dio, quando Fabietto percorreva su un treno il tragitto che l’avrebbe ricollocato a Roma, abbandonando quella città che è sì “na’ carta sporca”, ma non è vero che “nisciuno se ne importa”, perché al regista importa assai della sua Napoli bella e perduta. “Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto”, recita la citazione di Céline che apre i film, e che dà la misura dello smarrimento di Sorrentino in cui è dolce, e allo stesso tempo doloroso, naufragare. E il regista affida alla sua protagonista quello struggimento che si esprime al meglio proprio attraverso le canzoni, dalla straziante “Era già tutto previsto” di Riccardo Cocciante, che sottolinea la qualità inesauribilmente prevedibile di una città fatta per strapparti il cuore, a “Che cosa c’è” di Gino Paoli e Ornella Vanoni, che evoca l’inspiegabilità (e inevitabilità) di ogni innamoramento, e soprattutto al “suono suonante che non riesci mai ad inscatolare” che è la musica di Enzo Avitabile.

 

(…) Come già in Youth, Sorrentino riflette sull’età che avanza paragonata ad una giovinezza perfetta, su ciò che non gli sarà mai dato di comprendere ma anche sulla capacità di vedere come “l’ultima cosa che si impara quando è venuto a mancare tutto il resto”. E Parthenope è intriso in dosi uguali di malinconia e di scontento: ma “a Napoli c’è sempre posto per tutto”, anche per l’incapacità di fare pace col passato e di imparare dai propri errori: vale per le città come per gli esseri umani.

 

 

Mymovies

In È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino faceva dire a Antonio Capuano che da Napoli nessuno se va mai davvero. Non si sfugge a Napoli: e a Napoli, in tutti i sensi, Sorrentino torna anche in Parthenope. Torna a Napoli e a quell’altra cosa cui nessuno di noi sfugge mai davvero: la giovinezza, il suo ricordo, il suo fantasma. Il fantasma di una stagione fatta di bellezza, dell’illusione della spensieratezza, dello sperpero di sé stessi, dei propri sentimenti, dell’amore, di un tempo regalato alla gioia, o disperso nella malinconia. A sfuggire, invece, inesorabile, è il tempo. È la vita. Quella vita che, come recita l’esergo di Luis-Ferdinand Céline “è enorme”, tanto che “ti ci perdi dappertutto”. Ecco. Parthenope racconta la vita di una donna che si è persa nella sua vita, che alla vita e ai suoi misteri, ai suoi dolori, si è abbandonare. Parthenope, la Parthenope di Celeste Dalla Porta, è una donna che si è lasciata andare. Si è lasciata andare da quando a lasciarsi andare è stato suo fratello Raimondo, il Raimondo fragile, che sapeva tutto e vedeva tutto, il Raimondo forse innamorato di lei e pronto a perdere tutto, tranne lei.

Da quel momento in avanti – quel momento che infrange l’incantesimo della sua e loro giovinezza – Parthenope inizia a esplorare i frammenti e le rovine di quel che è rimasto, i riflessi oscuri del mondo all’esterno, le sfumature ambivalenti di una vita che Sorrentino fa coincidere, anche, con la sua città. Una città che Parthenope ama, odia, incarna. Il dolore che la ragazza porta dentro, unito al suo senso di colpa, non la trasfigura, non la sfregia, non ne limita la possibilità di riconoscere la bellezza vertiginosa che a tratti le si para davanti, come una meraviglia: il mare, il figlio malato del suo professore di antropologia, le sorprese che Napoli è in grado di riservarle anche alla fine, quando pensa di aver visto tutto. Il dolore di Parthenope, che ha cancellato l’illusione, le permette finalmente di vedere, come le insegna il suo professore di antropologia: vedere Napoli come non l’aveva mai vista, uscendo dallo splendore delle ville di Posillipo, dal mondo dell’alta borghesia alla quale appartiene (il padre è il braccio destro di Achille Lauro, non il cantante, l’altro), e di esplorare la Napoli dei vicoli dei Quartieri Spagnoli e della camorra, di avvicinarsi al dolore degli altri, comprenderlo, lenirlo.

Bellissima e intelligente, Parthenope ha perfetta consapevolezza del potere della bellezza ma non ne abusa, e si muove in un mondo in cui, usciti dalla stagione della spensieratezza, dove erano tutti liberi e belli, per la bellezza c’è poco spazio. E se c’è, è mortificata, esposta, svilita. Il resto del mondo del film di Sorrentino è composto da personaggi che la bellezza non l’hanno mai posseduta (“Il mio corpo è fatto per essere rifiutato, le dice Tesorone, personaggio demoniaco e farabutto, seduttore impenitente). Allora, in quella libertà totale che ha, fatta di abbandono ma mai d’inconsapevolezza, Parthenope è in grado di trovarla, la bellezza, in un sublime che non conosce distinzioni, pregiudizi, né canone estetico. Anche Paolo Sorrentino trova la bellezza, e il sublime, nelle sue immagini: che partano dall’idea del bello tradizionalmente inteso, o che invece affondino le loro radici nel grottesco, del deforme, nella miseria o nell’osceno.

In questa forma così inconfondibile, così studiata, a tratti così esplicitamente pittorica ma sempre spontaneamente e puramente cinematografica, il regista napoletano cristallizza un sentimento potentissimo, riuscendo nel miracolo di farlo liquefare. Gocce di una malinconia e una nostalgia struggenti che rigano le guance del film e dello spettatore, che squarciano il cuore (“Era già tutto previsto”, canta Cocciante in un’occasione), e che riescono a riguardare contemporaneamente una storia universale e legata al sentimento umano, e una più particolare sul legame con un luogo, una terra. La storia di Parthenope è, allora, anche la storia di una donna che si è lasciata andare, letteralmente, via dalla sua città, e dal suo passato, e che arrivata in età adulta, oltre l’età adulta, torna indietro per far pace, o perlomeno iniziare a farlo, con tutto quello che ha perduto: la giovinezza, un fratello, la sua città natale. È pieno di domande e di risposte, Parthenope. Più risposte che domande.

Le risposte sempre pronte, sferzanti, ironiche, apodittiche, studiate della giovane Parthenope, che cerca così di controllare e dominare quel che imparerà, suo malgrado, è impossibile fare. Le risposte di personaggi memorabili (il John Cheever di un gigantesco Gary Oldman incontrato da Parthenope a Capri, il professor Marotta di un meraviglioso Silvio Orlando, perfino il Tesorone di Peppe Lanzetta), ossessive nel loro farsi testardamente aforisma. Sorrentino gioca con questo stile, provoca lo spettatore, ne testa la pazienza, ma al tempo stesso ammette esplicitamente, con sconcertante candore, come anche il suo sia il tentativo di ordinare il non ordinabile, di controllare la vita col cinema, per attutirne in qualche modo l’impatto. Le domande, anzi, la domanda, è sempre la stessa. “A cosa stai pensando?”. Lo chiedono in tanti, quasi tutti, a Parthenope. Una risposta non c’è mai, davvero. Perché Parthenope, come la vita, come Napoli, è un mistero, una contraddizione, un ossimoro (come il “notaio felice” citato dal personaggio di Orlando), il fantasma impenetrabile e enigmatico di ciò che è stata e di ciò che sarà. Se al mistero di Parthenope una risposta c’è, viene data, o si forma nella nostra mente, arrivano sempre i personaggi, il film stesso, il loro autore, a riportarci sempre in uno quello stato di ambiguità, e quindi di attenzione, di apertura, che permette di poterci stupire davanti la meraviglia che, fugace, fantasmatica anche lei, ci si para davanti nel corso dell’esistenza. Perché alla risposta, quando pare arrivare, Sorrentino aggiunge una postilla, semplice, cristallina, pesantissima, illuminante, melvilliana: “O forse non è così”.

Capolavoro? Forse. O forse non è così. Mistero.

 

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