Parlate a bassa voce

Esmeralda Calabria

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Un documentario che racconta l'Albania, uno dei paesi ex comunisti d'Europa tra i più impenetrabili: uno sguardo tra la contemporaneità e il passato di una nazione che è stata isolazionista, stalinista e antirevisionista. La memoria e il suo peso si destreggiano tra i trent'anni dalla caduta del regime e l'attualità del mondo odierno, due aspetti con cui tutti i protagonisti di questo film - musicisti, attori, registi, privilegiati e declassati - convivono. Ogni personaggio racconta le contraddizioni di un sistema, che ha avuto per oltre 40 anni il volto di Enver Hoxha, a capo della nazione come una sorta di Grande Padre capace di dare così come di togliere.
DATI TECNICI
Regia
Esmeralda Calabria
Durata
84 min.
Genere
Documentario
Fotografia
Mirko Pincelli, Mattia Epifani
Montaggio
Esmeralda Calabria
Distribuzione
Satine Film
Nazionalità
Italia
Anno
2022
Attività

Presentazione e critica

Gli intrecci della storia e delle vite di chi è andato via: Redi scappa dall’Albania nel 1997 per sfuggire ai disordini scoppiati in tutto il paese e raggiunge il fratello Ekland in Italia, dove si diplomerà al Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ekland, musicista del Teatro dell’Opera di Tirana, aveva lasciato clandestinamente l’Albania qualche anno prima. Meteli Hasa e Afe¨rdita Hasko Hasa, i genitori di Redi ed Ekland, primo ballerino dell’Opera di Tirana lui, insegnante di violoncello all’Accademia Musicale di Tirana lei, ora vivono in Puglia.

Gli intrecci della storia e delle vite di chi è rimasto: Bojken Lako, figlio di Bujar Lako, l’attore più importante del cinema albanese, scrive, dirige e produce programmi radio e tv. Irini Qirjako, Irena Saraci, Sabahet Vishnja e le altre, tutte componenti del Coro Jehona, il più importante gruppo di musica tradizionale albanese, si esibiscono nel paese e in giro per l’Europa. C’è un paese che contiene tutte queste storie, quelle di Redi, Ekland, Meteli, Afe¨rdita, Bojken e del Coro Jehona. Un paese che per quasi cinquant’anni ha vissuto nell’isolamento più totale, stretto com’era tra la vittoria socialista post-Seconda Guerra Mondiale e l’autarchia imposta dal suo regime fino al 1990; un paese disegnato su sogno e pensiero di Enver Hoxha, partigiano, fondatore del Partito Comunista locale e presidente della nazione fino alla sua morte nel 1985; un paese che due volte nel giro di appena sei anni, nel 1991 e 1997, si è visto sull’orlo di laceranti guerre civili, prima per il passaggio dal regime comunista alla democrazia liberale, e poi per il fallimento di quest’ultima, stritolata dagli interessi internazionali e dai cartelli criminali della regione. Questo paese, come ci hanno raccontato Redi e gli altri, è l’Albania.

Già così sarebbe un bel palinsesto da mandare giù, riprendere e rilanciare. Ma Esmeralda Calabria con Parlate a bassa voce fa di più. È abituata a fare di più. Montatrice per Moretti, Piccioni, Placido, Archibugi, D’Innocenzo e tanti altri, produttrice con la sua Akifilm, regista e sceneggiatrice, Calabria quando ha firmato come autrice opere sue ha firmato titoli più larghi possibili – Biùtiful Cauntri, sull’avvelenamento delle terra generatrice di tanta cucina italiana, la Campania, e Lievito Madre, progetto parallelo di Cosa pensano le ragazze, firmato assieme a Concita De Gregorio, sono lì a dimostrarlo. Così, facendo collidere il verticale della storia pubblica del paese con l’orizzontale della storia privata dei suoi abitanti, Calabria con Parlate a bassa voce fa venire fuori tutte le possibili immagini, tutte insieme, che compongono l’Albania. Lo specifico di una nazione attraverso lo specifico del cinema – il montaggio.

Di rappresentazioni e narrazioni è innervato questo film. Si parte da quello che abbiamo in mente e negli occhi – l’arrivo della Vlora a Brindisi nel ’91 con a bordo 20.000 albanesi, la criminalità albanese, l’idea dell’albanese ignorante perché è un manovale e manovale perché è un ignorante – non per ribaltarlo, no, ma per allargare il campo del pensiero, della visione, lasciando finalmente ricordare, collegare, raccontare a loro. A Redi Hasa, violoncellista di fama internazionale, e alla sua famiglia; a Bojken con le vhs dei suoi programmi televisivi; al Coro Jehona e le sue tournée mondiali. E pian piano si creano le connessioni, si svelano gli strati, quelle personali con Redi e Bojken che da ragazzi avevano una band punk, e quelle collettive con l’intrico di istituzioni e accademie che nel corso dei decenni hanno sostenuto e promosso il lavoro di tanti artisti in perenne tensione quotidiana con il regime.

Calabria è brava e precisa non nella chiusura dell’orizzonte ma, appunto, nella sua apertura più ampia possibile. E se le vite interrotte di questi artisti di-spiegano il laboratorio nazionalista e socialista messo in piedi da Hoxha, gli altri ricordi presenti nel film ri-spiegano cos’era vivere sotto quello stesso regime. Sono le storie di Gjete¨ Gjoni, Xhavit Lohja, Arian C¸ela, vecchi e giovani, genitori e figli, che raccontano di campi di prigionia, campi di lavoro, carceri, bunker di cui era disseminata l’Albania e in cui finivi per essere un prigioniero – quasi – a vita o – forse peggio ancora – un declassato della società. Ci sono, naturalmente, anche loro, le loro storie, i loro pezzi d’Albania rurale o al confine. Ci sono le immagini di Hoxha, i suoi funerali, i convegni del partito, le rivolte del ’91 e del ’97. C’è tutta l’Albania dentro questo film, un paese dove ancora qualcuno parla a bassa voce e, come nel finale obliquo e inquieto, qualcuno ancora si chiede chi è entrato a casa sua.

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