Michele Riondino
David di Donatello 2024 - Premio migliore attore non protagonista a Elio Germano, Premio migliore attore protagonista a Michele Riondino, Premio migliore canzone originale
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
1997. All’ILVA di Taranto è appena avvenuta l’ennesima morte sul lavoro, ma Caterino Lamanna, operaio addetto ai lavori di fatica nell’industria siderurgia, è pronto a darne la colpa ai sindacati. Caterino è un cane sciolto che pensa al suo imminente matrimonio con la giovane albanese Anna e si fa i fatti suoi, finché Giancarlo Basile, dirigente dell’ILVA, non lo recluta per “farsi un giro e dirgli quello che succede” in fabbrica, e resoconti in particolare le attività del sindacalista Renato Morra, che infiamma gli animi degli operai e li spinge alla ribellione. Basile offre a Lamanna la promozione a caposquadra e l’auto aziendale, ma Caterino chiede di essere mandato alla Palazzina Laf pensando che sia un luogo di privilegio riservato a pochi eletti. In realtà è un edificio in disarmo, incrocio fra una riserva indiana, un manicomio e una prigione, dove sono rinchiusi in orario di lavoro i dipendenti qualificati che hanno fatto l’onda, e che quindi sono invitati a licenziarsi o ad accettare un incarico demansionato e incoerente con la loro preparazione.
Palazzina LAF segna l’esordio alla regia dell’attore Michele Riondino, ed è un esordio fulminante, che porta con sé non solo la conoscenza approfondita della storia ignobile dell’ILVA e delle sue ricadute sul territorio tarantino (dove Riondino è nato e cresciuto), ma anche l’eredità di molto cinema, dalla saga grottesca di Fantozzi fino all’alienazione stralunata di La pecora nera di Ascanio Celestini, Brazil di Terry Gilliam e Tony Manero di Pablo Larrain. Più di tutti però il personaggio di Caterino Lamanna, che Riondino si cuce addosso ricavandone la miglior interpretazione della sua carriera, è un “poveraccio orgoglioso” degno del cinema anarcoide di Lina Wertmuller: un ruolo che negli anni Settanta sarebbe stato interpretato da Giancarlo Giannini, ma che porta con sé anche la “rabbia proletaria” di Gian Maria Volonté. “ILVA is a killer” dice una scritta nel film, e non lo è solo in senso fisico, date le morti per malattie causate dalla vicinanza agli altiforni e dal mancato rispetto delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro, ma anche nella volontà di umiliare sistematicamente i suoi dipendenti con strategie che da allora in poi sarebbero state definite mobbing. I continui tagli del personale e aumenti dei turni, il tentativo di far pagare ai lavoratori il prezzo di una fantomatica ristrutturazione si traducono in una spada di Damocle perennemente sollevata sulla testa di tutti, impiegati come operai.
La sceneggiatura, dello stesso Riondino saggiamente affiancato dall’esperienza di Maurizio Braucci, non fa sconti a nessuno e crea dinamiche relazionali allo stesso tempo credibili e lunari. E a fare la differenza nel raccontare questa storia è la volontà di non farne semplicemente un “film a tema” ma un lavoro artistico che trova la sua originalità in una serie di scelte molto precise di regia, di montaggio (del bravissimo Julien Panzarasa) e di commento sonoro minaccioso e incombente (le musiche originali sono di Teho Teardo, la canzone finale è di Diodato, che ha origini tarantine). Dalla scena in cui Caterino emerge con un occhio nero alle visioni (o anticipazioni temporali) che precedono e preconizzano le conseguenze delle azioni in scena, Palazzina Laf costruisce in modo asciutto ed essenziale, ma mai minimalista o documentario, la parabola di un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo. E finalmente torna a mettere il diritto dei cittadini al lavoro – e a condizioni che lo rendano possibile – all’interno del nostro cinema che, dagli anni Settanta in poi, ha in gran parte evitato di parlarne.
Da Leonardo Da Vinci a Arthur Conan Doyle, da Charles Bukowski a Giorgio Armani, sull’importanza dei dettagli si sono espressi in tanti, nel corso della storia. Paul Auster e Stephen King hanno detto qualcosa di molto molto simile, affermando che la verità è nei dettagli. Dirlo qui significa voler sottolineare come in Palazzina LAF, suo esordio alla regia, Michele Riondino ha avuto l’intelligenza di stare attento anche alle piccole cose, ai particolari. Uno su tutti, il nome del suo protagonista, Caterino Lamanna: un nome bellissimo, antico e grottesco al tempo stesso, capace di raccontare, da solo, tantissimo sulla persona che lo porta e le vicende di cui è protagonista. Siamo nel 1997 – a dircelo ci sono le auto, i pandini come le Thema, ma anche Cloris Brosca alla televisione – e Caterino è un operaio dell’ILVA di Taranto. All’ombra dell’ILVA Caterino ha sempre vissuto, letteralmente.
Per Caterino non c’è altro mondo all’infuori dell’ILVA, del lavoro, della sua giovane fidanzata Anna. Di sogni piccolissimo borghesi, post-proletari, come lasciare la masseria diroccata che gli è casa per trasferirsi in città. Sposarsi, al limite, anche se la voglia non è tanta. Caterino se un operaio muore sul lavoro pensa che se uno non è capace, in acciaieria non ci deve andare. I sindacati sono qualcosa di lontanissimo dal suo orizzonte, nonostante il fermento che lo circonda. Caterino è l’uomo che fa al caso del suo quasi coetaneo Giancarlo Basile, colletto (quasi) bianco senza scrupoli, dirigente agro-rampante che lo inizia a usare come spia per capire che stanno preparando, quei maledetti sindacalisti, chi sia che fomenta il malcontento nell’azienda. Quel che riceve Caterino in cambio sono privilegi di piccolo cabotaggio: una pseudo-promozione con tanto di pandino aziendale prima, e poi il collocamento nella palazzina del titolo poi: uno spazio surreale, nel quale l’azienda spedisce i lavoratori che vorrebbero ricollocare ma che non accettano il demansionamento, e che sono condannati a una pena solo apparentemente paradisiaca: trascorrere lì l’orario di lavoro, senza avere niente di niente da fare.
Una cosa del genere l’abbiamo vista di recente nel documentario di Erik Gandini After Work: nel ricchissimo Kuwait della piena occupazione c’è gente pagata dallo stato per lavorare in enti e ministeri, ma che lì non ha una mansione. Il surreale della situazione era già evidente lì, e sempre lì s’intuiva la follia di chi quella situazione l’ha pensata, e quella più patologica ancora che rischia chi quella situazione la vive. Quello che Riondino racconta della palazzina LAF, nella sostanza, è vero. E la sua è una denuncia. Il suo è un cinema civile, dato che si premura anche, giustamente, di ricordare che luoghi come quello esistono ancora, a venti e più anni di distanza da quanto raccontato nel suo film.
Eppure sbaglierebbe chi pensasse a Palazzina LAF, per temi e motivazioni, come a uno di quei tanti film dall’impegno rigoroso e un po’ plumbeo, improntati a un realismo grigio, documentaristico, dove la denuncia, il tema, fanno il film, che per il resto rimane spoglio e essenziale.
Al contrario: quello di Riondino è un film mette il cinema prima di tutto, e che usa la commedia, e il grottesco, per raccontare la sua storia. Nel programma della Festa del Cinema di Roma, dove Palazzina LAF è stato presentato in anteprima, per parlare del film sono stati evocati gli spettri dell’Elio Petri di La classe operaia va in Paradiso, e quelli del suo (ma non solo) Gian Maria Volonté. E farlo non è stata affatto una mossa unicamente promozionale e di incentivo al film. Il parallelo tra Lulù Massa e Caterino Lamanna è chiaro e evidente: solo che per Caterino ogni possibilità di presa di coscienza (di classe, ovviamente, ma non solo) è impossibile. Perché i tempi sono cambiati, e perché Caterino, facendo quello che fa, fa (pensa lui) il bene dell’azienda, l’unico che concepisce, e perché se finisce sul giornale in cronaca giudiziaria, lui, è contento perché è diventato famoso, e già si vede al Maurizio Costanzo Show. Se quel che Riondino racconta è giusto e importante, questo non diventa mai per lui un paravento dietro al quale nascondere mancanze, né l’alibi per tralasciare qualcosa che al cinema lo è altrettanto: un’idea di forma, di stile, di genere. Il modo in cui Riondino gioca col tono di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene, senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore. Ancora una volta, il segreto sta nella cura per il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino Lamanna.
La cura del dettaglio, in Palazzina LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina Limosani. Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta. La si vede nel modo in cui Riondino, dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.