Daniele Vicari
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
Si dice che diventando nonni si ritorna magicamente bambini. Ma Orlando è solo un anziano di paese; nel cortile un orto e nelle gabbie tante galline. Per testardaggine, o per orgoglio, dopo aver perso il ruolo di padre, non credeva, o forse non pensava, di diventare nonno. Eppure, a tremila chilometri, in una metropoli come Bruxelles, nonno ci è diventato per davvero, senza saperlo. E così, basta una chiamata al bar del paesino e tutto cambia, i segreti si rivelano e da unità inscindibile, il vecchio Orlando si ritrova a vivere per due: non più uomo scorbutico, ora è padre, nonno, e bambino da salvare sotto chilometri di incomprensioni e sentimenti sottratti, ignorati, lacerati.
Il nuovo film di Daniele Vicari è una carezza appena suggerita, un tocco leggero di chi sta reimparando a vivere al ritmo di due cuori, in un mondo straniero con una nipote sconosciuta. È la storia di due gradi di separazione pronti a conoscersi, avvicinarsi, studiarsi per apprendere di nuovo a condividere l’amore e un sentimento di famiglia che rischia di frantumarsi come terra appena zappata.
Orlando vive solo in un paese del centro Italia e da lì non si è mai voluto spostare, a differenza di quanto fatto da suo figlio 20 anni prima trasferendosi a Bruxelles. Proprio quel figlio sta adesso male; glielo comunica una telefonata dal Belgio. Orlando è così costretto per la prima volta nella sua vita a partire. Quando arriva scopre di avere una nipote di 12 anni. Messi insieme i due sono quanto di più lontano si possa immaginare, ma scopriranno inaspettatamente di avere bisogno l’uno dell’altro. Nonostante siano distanti come possono esserlo la vita rurale in un piccolo borgo dell’entroterra e quella metropolitana di una grande città europea, cercano di farcela, di cavarsela. Lui è il simbolo di un passato che non passa e lei della generazione “Greta Tumberg”, pronta a costruire un mondo nuovo ma di cui nessuno sa davvero cosa possa essere.
È un film che vive tra le pause, Orlando. Un’opera, quella di Daniele Vicari, che non corre, non esplode, ma prende corpo nello spazio delle azioni. Una parentesi in formato cinematografico di un’esistenza in sospensione nell’attesa di ritrovare quel coraggio necessario affinché qualcuno o qualcosa possa finalmente toccare il tasto “play” e riprendere a vivere. Quel dito ha un corpo e un volto per Orlando: è Lyse, la nipote di dodici anni che rimette in gioco una pellicola messa in pausa per troppo tempo e per questo scolorita, danneggiata, bloccata in una visione anacronistica della vita senza possibilità di remake, ma solo di un lento aggiornamento di sistema.
Non è facile lasciare “il paese” per chi in quell’orto ha seminato anche le proprie radici. Bruxelles è così lontano, così diverso da quel grembo paesano che Orlando si sente spaesato, disorientato, fuori luogo. Una sensazione di disagio che Daniele Vicari rende reale, tangibile e condivisibile semplicemente con una macchina da presa e una lente grandangolo. Nello spazio di un viaggio in treno ecco allora costruirsi un conflitto visivo dove i campi lunghi di un uomo perfettamente in simbiosi con il proprio paese, lascia spazio a primi piani distorti, e figure mostruose, che si aggirano tra le vie della capitale belga a testa bassa, ignorando piuttosto che farsi parte integrante di un mondo così abituato ad accogliere e ora abiurato. Non più e soltanto testimone privilegiato, la regia di Vicari si fa traduttrice visiva di un’interiorità silente. Non parla, Orlando; ascolta, ma non comprende; guarda, ma non apprezza il mondo che lo circonda: uno scarto ossimorico che la macchina da presa coglie e restituisce nel linguaggio visivo di un conflitto costante, che affligge e segna un affetto famigliare pronto a nascere e bruciare, come un incendio indomabile.
In Orlando nulla sembra accadere, quando in realtà ciò che scorre tra i raccordi di un montaggio elegantemente commovente, è uno squarcio papabile di vita verosimilmente vissuta. Quella di Orlando si eleva pertanto a un’ordinarietà straordinaria di un uomo che si lascia alle spalle un agognato ritorno a casa per trovare un alloggio all’ombra di una nipote “monella”, ma sempre più indispensabile all’anima e al cuore. Scorbutico, misantropo, tradizionalista, a tratti un po’ razzista: Orlando incamera e incarna tutti gli stereotipi del contadino anziano, poco istruito e figlio del proprio tempo. Contenitore di valori e pensieri superati, in lui confluisce un retaggio ancestrale pronto a sgorgare in una volgata popolare di un accento marcato, ora fattosi elemento rivelatorio di un’appartenenza sociale umile, contadina, di chi si sporca le mani e chiude la bocca. I protagonisti di Orlando sono allora personaggi forgiati nel sacro fuoco di una quotidianità possibile. Istantanea cinematografica sviluppata dalla pellicola del realismo, Orlando vive del cuore di un Michele Placido che si sveste della propria personalità per restituirne una ex-novo contornando la complessità di un uomo come il suo Orlando; discorso analogo per una sorprendente Angelica Kazankova, la cui Lyse pare essere presa in prestito direttamente dal nostro mondo per inserirsi tra le cornici di un universo filmico improntato sulla forza degli opposti: una visione ribaltata di una Heidi contemporanea dall’animo umano, e un corpo tangibile, toccante, reale.
Quello da cui proviene Orlando è un universo colorato e abbagliante, del tutto opposto a quello che lo avvolge a Bruxelles: fuligginoso, nebbioso, investito da lingue di ombre profonde. Il mondo che circonda il protagonista in questa nuova avventura è un’ombra perpetua che gli impedisce di carpire la bellezza di ciò che lo circonda per sentirsi così parte di un qualcosa che non riesce (o non vuole) vedere nitidamente. Non c’è luce per chi non si sente a casa e Orlando è un uomo gettato nella nebbia della resistenza e del rigetto emotivo di una contemporaneità sconosciuta e incomprensibile.
Daniele Vicari torna dietro la macchina da presa per mettere in scena quella che lui stesso ha definito “una favola moderna” che prende il nome dal suo protagonista. Ma dietro quella definizione c’è nel film, presentato Fuori Concorso al Torino Film Festival e in sala con Europictures, un mondo reale e attualissimo che si pone e ci pone una serie di domande. Forse quella più lampante si interroga sulla possibilità di un uomo, che non è stato in grado di essere un buon padre, di diventarlo a posteriori con una nipote.
Il film, però, è anche una fotografia del nostro presente, con un’Europa proiettata verso il futuro, sviluppata in verticale ma che, come la stessa regia di Vicari e la fotografia di Gherardo Gossi sottolineano, schiaccia e fagocita il suo protagonista. Michele Placido è straordinario nel tratteggiare il suo personaggio. Un uomo che racchiude al suo interno gesti, espressioni, umori di uomini che tutti noi abbiamo conosciuto nella nostra infanzia. Uomini duri, di poche parole, capaci di una forza e resistenza tali da sembrare immortali.
L’attore nei silenzi del suo Orlando, tra i soldi cuciti nella giacca, le mani che tremano, la mascherina sotto il naso e quell’atteggiamento sempre un po’ diffidente e scontroso, ce ne restituisce un ritratto sincero e commovente. Daniele Vicari con Orlando, scritto a quattro mani con Andrea Cedrola, parla di generazioni passate e future, di possibilità all’orizzonte delle quali non conosciamo ancora i contorni. E forse è per questo che il suo film ha un finale aperto, perché la storia di Orlando e Lyse, così come la nostra, è ancora tutta da scrivere. Un film colmo di speranza.