James Hawes
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
1938. Vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Nicholas Winton, londinese, 29 anni, agente di borsa, avvertendo la minaccia dell’invasione della Germania di Hitler organizza un piano di salvataggio, noto come “Operazione Kindertransport” per centinaia di bambini, molti di religione ebraica, prima dell’inizio del conflitto. Grazie a Martin Blake, che gli aveva chiesto di andare a Praga per aiutarlo a coordinare le operazioni del Comitato Britannico per i rifugiati della Cecoslovacchia e altre figure centrali come Doreen Warriner e di sua madre Babette che intanto collaborava da Londra, Winton riesce a far partire otto treni con a bordo centinaia di bambini che raggiungono la Gran Bretagna dove vengono ospitati da famiglie affidatarie. Ne era previsto un nono, ma il giorno in cui doveva partire, il 1° settembre 1939, Hitler ha invaso la Polonia e i confini in Europa sono stati chiusi. Nella seconda metà degli anni ’80, l’impegno di Winton viene finalmente riconosciuto pubblicamente quando ha l’occasione di incontrare quei bambini ormai adulti nel corso della trasmissione della BBC That’s Life!: ne ha salvati 669 dai campi di concentramento e verrà denominato lo “Schindler britannico”.
Una valigetta, le pagine di un diario con foto e ritagli di giornali. Quelle finali sono rimaste bianche. La Storia in One Life si riscrive da lì. Proprio come in Schindler’s List di Spielberg, c’è un elenco di nomi da salvare. E come in quel film, anche in questo caso i volti restano subito impressi, dai bambini nel campo di rifugiati in Cecoslovacchia sotto la neve che chiedono la cioccolata a Nicholas alla dodicenne che porta con sé un neonato, ai genitori che sono costretti a separarsi dai loro figli.
Il primo piano in One Life ha una forza espressiva dirompente proprio perché racchiude la storia di ognuno dei personaggi. James Hawes è al suo primo lungometraggio per il cinema ma sembra che ne ha già girati dieci dopo aver già mostrato le proprie capacità per circa trent’anni come solido regista televisivo (di cui vanno ricordati, per esempio, cinque episodi diretti di Doctor Who, due di Black Mirror, tre di Snowpiercer e sei di Slow Horses) ha un’incredibile padronanza nella lucidità in cui racconta la storia di Nicholas Winton ma riesce al tempo stesso ad emozionare nel modo più semplice e immediato possibile.
Non c’è solo la lezione di Spielberg ovviamente ma anche quella di Polanski (Il pianista). One Life però ridefinisce autonomamente il proprio posto all’interno del “cinema sull’Olocausto”, si sofferma su dettagli fondamentali e inquietanti (la cartina con il piano temporale di espansione di Hitler nel corso degli anni) ma soprattutto ci sono i momenti delle partenze e degli arrivi, tra le stazioni della Cecoslovacchia e di Praga, che sono pagine di grande cinema.
Possono essere un po’ più lunghi (l’affidamento dei bambini alle famiglie inglesi) o anche brevissimi ma che lasciano il segno (l’attesa al binario di un treno che non arriverà mai). Ma già da qui si vede in James Hawes la mano sicura ma al tempo stesso coinvolta dalla storia che racconta, dove le tracce della memoria sono già in quella stanza incasinata della casa di Winton nel 1987.
In più, colpiscono contemporaneamente le prove di Anthony Hopkins e Johnny Flynn (rispettivamente Winton anziano e giovane). Il primo con una maestria e un’intensità che diventa esplosiva nella trasmissione That’s Life! in cui rivede molte delle persone che ha salvato. È una scena cruciale e sconvolgente di cui è già presente un filmato su YouTube. Hopkins sembra riprodurlo con una lezione di tecnica di recitazione mentre in realtà lo reinventa facendo vivere sulla propria pelle quello che il suo personaggio stava provando. Flynn invece è vero in ogni inquadratura e sembra quasi uscire dal documentario di un personaggio.
Non c’è un momento sprecato, ogni inquadratura arriva e colpisce direttamente. Quella di One Life è una storia emozionante raccontata benissimo, con rispetto, pudore e passione, rabbia. Quando il cinema sa mettersi al servizio della Storia. Proprio per questo One Life è già, in qualche modo, un film indimenticabile
(…) Chi salva una vita, salva il mondo. È questo che si dice dei “giusti dell’umanità”, ovvero coloro che hanno messo a rischio sé stessi per aiutare gli ebrei durante il periodo nazista, salvandoli dallo sterminio. Anche una sola vita conta. È questo che il film sottolinea, ma è ciò che il suo protagonista sembra non vedere. Nicky appare invece ossessionato dal non aver fatto abbastanza. Quasi se ne vergogna. Il senso di colpa che, paradossalmente, si porta dietro, è quello che gli impedisce anche di fare pace col suo passato. Il regista si interessa a questo conflitto interiore, che Anthony Hopkins è abile nel rendere con aderenza e misura, senza eccessi, ma attraverso tante piccole sfumature, che assieme compongono un quadro intenso, dalla valenza profonda. Fragilità e forza coesistono in questo personaggio, così come non si rinuncia a qualche piccolo tocco di sobrio humour inglese.
Altro focus del film è quello che lega il passato all’oggi, sul tema dei rifugiati. Chi scappa da guerre e persecuzioni, appare chiaro in One life, merita di essere aiutato, ad ogni latitudine, oggi come ieri. Ciò vale anche trasversalmente rispetto al credo religioso. Alla luce dell’attualità, dei numerosi conflitti e della mole di persone che arrivano in Occidente in cerca di un futuro migliore, colpisce un’affermazione del protagonista, a cui si domanda perché si adoperi così tanto per questi bambini ebrei. Nicky risponde con una professione di agnosticismo, riaffermando il valore intrinseco della vita umana. Il parallelo col tempo presente, si estende anche ai paesi che sono chiamati ad accogliere. L’Inghilterra nel film ha un atteggiamento inizialmente ostile all’ipotesi dell’accoglienza, il che non può non far pensare all’atteggiamento di molti paesi occidentali verso i migranti di oggi. In questo senso, One life offre spunti di riflessione.
La ricostruzione storica del film appare accurata, anche le ambientazioni lo sono. A partire dalla fotografia di Zac Nicholson, fino alla scenografia e ai costumi. Si rendono bene sia il periodo immediatamente antecedente alla guerra, che la condizione delle famiglie rifugiate nei campi di Praga. Narrativamente, il materiale è ben organizzato e il racconto coeso. La maggior parte del film si svolge in flashback, ma le parti della vicenda che riguardano la vita di Nicky da anziano, hanno una loro precisa funzione e regalano alcuni dei momenti più emozionanti del film.
Ad accompagnare un ineccepibile Anthony Hopkins e Johnny Flynn – nel ruolo di Nicky da giovane – vi è un buon cast, che conta su Lena Olin, Romola Garai, Alex Sharp ed Helena Bonham Carter, perfetta nel ruolo della madre di Nicky. Hawes tratta un tema – il salvataggio di molti ebrei da parte di un solo uomo – affrontato in altri lavori anche di grande successo, su tutti, Schindler’s List. Portare di nuovo il pubblico ad interessarsi a una vicenda di questo tipo, dunque, non è semplice. Il regista ci riesce, accendendo i riflettori su una storia poco nota, che resta un esempio alto dei valori più profondi dell’essere umano ed ha ancora tanto da dire.