François Ozon
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Nella Parigi del 1935 due coinquiline, un’attrice, Madeleine Verdier, e un avvocato, Pauline Mauléon, si trovano in una situazione finanziaria disastrosa, tanto da non riuscire nemmeno a permettersi di pagare il misero affitto del loro modesto appartamento. Un giorno Madeleine viene contattata dal ricco produttore cinematografico Montferrad per un provino, scoprendo in realtà che il suo è un doppio fine. Dopo l’appuntamento con Madeleine andato male, Montferrad viene trovato morto nella sua villa, i sospetti vengono così subito indirizzati contro Madeleine. Quella che però sembra essere una sciagura, e un’autentica condanna di morte, si trasformerà per Madeleine e Pauline in un’occasione di carriera.
Dietro la camera da presa il regista francese propone, come si può intuire leggendo la sinossi, uno spettacolo che, nonostante elementi atipici e distopici che balzano subito all’occhio, rimane ricco ma classico. Ozon ama giocare con i generi narrativi, dona effetti cangianti alla narrazione senza abbandonare uno schema prestabilito: del genere commedia mantiene, insomma, lo scherno sui connotati della società borghese, le sue caratteristiche paradossali, i suoi personaggi cliché.
(…) Mon Crime è un’evoluzione de La regola del gioco di Jean Renoir: i fili drammatici che connettono le vite dell’ampio corollario di personaggi intessono una fitta trama di rapporti ed eventi, nati però da una realtà costruita in modo artificioso e fittizio. Tutto è teatro, e tutto concorre verso un’unica direzione: la modernità. E per una volta il vizio italiano di sottotitolare i titoli dei film risponde al concetto di fondo: Mon Crime – La colpevole sono io, è un crime dove il delitto è fin da subito sfruttato dalle protagoniste come espediente per riscattare la propria esistenza.
La marca femminista è interamente rivolta all’interno di un cosmo paradossale; Mon Crime centra il punto, in questo modo, quando vuole dipingere un passato conosciuto mostrandocelo attraverso una classe sociale in formazione. Il film in questo senso è una palestra sociologica, un documentario storico, quasi antropologico, è insomma universale, divertente, satirico, ma anche anarchico sotto questo aspetto.
Letteralmente, alla protagonista non resta che dichiarare la propria (innocente) colpevolezza perché venga ascoltata; i suoi diritti vengono riconosciuti solo qualora esercita un atto che porta alla luce un probabile “atto passionale”, solo quando, cioè, le teste dei tiranni cadono e la colpa permane su di lei. È le mon crime, perché non ci sono alternative di riscatto: è l’unico modo che le protagoniste hanno per far sì che la propria voce, e il proprio talento, vengano notati.
François Ozon si dimostra in questo caso, e ancora una volta, una delle menti più brillanti che il cinema popolare francese ed europeo possa avere; Mon Crime è una prova più che lampante di un maestro capace di curare un film che faccia riflettere senza cadere in una morale fine a sé stessa (come CODA), e che intrattenga senza osannare un barocco vuoto d’idee (come Babylon).
A prima battuta sembra, infatti, che Ozon voglia a tutti costi trasportare la narrazione verso un binario morto dell’attivismo (quello storico alla Processo dei Chicago 7 per intenderci), in realtà, tutto al contrario, il regista francese costruisce il suo film in una chiave che prima di tutto è narrativa e cinematografica. Lo dimostrano l’intreccio intricato ma ritmato, la regia pulita e immersiva, il montaggio limpido e una direzione artistica che, con una scenografia dai chiari riferimenti al futurismo e al trascendentalismo, completano il quadro di un’epoca decadente, prossima all’esplosione di una nuova guerra.
D’altra parte, prima si è detto: in Mon Crime, tutto è teatro. E non è un caso allora se le protagoniste indiscusse del film, Madeleine e la Chaumette interpretata dall’Huppert, che nel terzo atto diverrà a tutti gli effetti la coprotagonista, siano due attrici: l’arte della recitazione è da una parte l’esaltazione del cinema come media universale, e dall’altra è una declassazione della modernità a uno show dell’assurdo.
Libero adattamento di una pièce del 1934 firmata Georges Berr e Louis Verneuil, Mon Crime – La colpevole sono io è il 22° lungometraggio del talentuoso e prolifico François Ozon che torna alla commedia mischiando allegramente leggerezza e umorismo caustico, e dando un accento Me Too a una storia degli anni ‘30.
François Ozon parla del suo film:
“Trovo che gli adattamenti siano spesso una buona base per raccontare una storia perché in generale sono cose che mi piacciono, ma non del tutto, quindi le trasformo. Per caso, ho visto La moglie bugiarda, una commedia piuttosto riuscita con Carole Lombard, ma adattata da un’opera francese di Georges Berr e Louis Verneuil intitolata Mon crime. Ero curioso di vedere come gli americani avevano adattato questa commedia francese. Così l’ho letta e ho scoperto che c’erano molte cose divertenti con questo personaggio di un falso colpevole che si autoaccusa per qualcosa che non ha commesso, e che conoscerà la fama grazie a questa bugia. Subito mi sono detto che doveva essere un’attrice, cosa che non accadeva affatto nella commedia, né nel film americano (era una scrittrice).
Così ho trasformato la pièce e mi sono assicurato che risuonasse con l’oggi, con le nostre attuali preoccupazioni, e anche con le mie in relazione all’influenza degli uomini in generale sulle donne. Ora che lo analizzo un po’, è la terza parte di una trilogia sulla condizione femminile dopo 8 donne e un mistero e Potiche. 8 Femmes era la rinuncia al patriarcato da quando l’uomo si è suicidato, Potiche era l’avvento del matriarcato con una donna che prende il potere, e qui c’è un film sul trionfo della sorellanza, su come le donne si aiutano a vicenda per cavarsela in quegli anni ’30 in cui la condizione delle donne era estremamente oppressa. Quindi è stato interessante mettere in prospettiva come si sono evolute le cose e quali battaglie devono ancora essere combattute per raggiungere la totale uguaglianza e libertà per le donne.
Se avessi raccontato questa storia oggi, avrebbe potuto essere un film drammatico nello spirito di Grâce à Dieu. Gli anni ’30 creano una distanza. È un periodo che può essere idealizzato, e alla fine la Parigi degli anni ’30 che mostro assomiglia a una Parigi hollywoodiana di Lubitsch o Billy Wilder. Non è realistico, c’è una forma di stilizzazione che ci permette di meravigliarci e di sorridere per cose che oggi non necessariamente ci fanno ancora ridere. L’idea era di fare un film su una cattiva attrice che diventa una brava attrice grazie a una grossa bugia. Ho spesso parlato di menzogna. Il cinema è una bugia, noi recitiamo scene, tutti interpretano personaggi e tuttavia lo spettatore va al cinema per crederci. C’è questa voglia, questo lato infantile di credere a una storia che ci viene raccontata anche se sappiamo che è falsa. E mi è piaciuto il fatto che questa attrice non molto brava, all’improvviso, grazie al testo di un altro, del suo avvocato, incarni idee che sentirà, e che emergerà una verità. Ecco cosa mi piace: che la verità emerga da un artificio, da qualcosa che è dell’ordine della fabbricazione. Alla fine, scoprirà in sé una coscienza politica femminista e ne diventerà il simbolo. Usa questa opportunità che la porta a una causa più nobile di quella che inizialmente voleva.
(…) Il film inizia su un sipario e finisce su un palcoscenico. Per me era intrinseco al soggetto. Era l’idea di essere come in un film di Renoir: la vita è una scena teatrale, ognuno recita un ruolo. L’unico momento in cui Madeleine dice la verità, guarda la telecamera, guarda lo spettatore: fin dall’inizio attraverso i muri, cosa che non si fa in un film realistico. È un gioco, un patto che faccio con lo spettatore: accetta di entrare in questo mondo di artifici? È una cosa che mi piace del cinema, anche se capisco che ci sono persone che rimangono ostili, che non entrano. Ma trovo che lo spettatore sia abbastanza intelligente e consapevole da accettare questa forma di artificio e trarne piacere”.