Ivano De Matteo
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
Non c’è bisogno di raccontare la vita di un segretario di partito o fare la cronaca di una rivoluzione, né di spiegare un cambio di bandiera o illustrare una campagna elettorale per fare un cinema politico. Nel caso di Ivano De Matteo, un film è politico perché prende posizione, perché il sociale diventa oggetto di un’analisi certamente lucida ma che passa anche per il cuore. E non importa se ci si muove all’interno di un piccolo gruppo di persone o se l’indagine si estende al paese intero. No, la militanza ha a che vedere con azioni o semplici gesti che hanno conseguenze importanti e impattanti sul contesto nel quale i protagonisti di una storia si muovono.
Come ne Gli equilibristi e ne I nostri ragazzi, il regista, insieme alla sua compagna e sceneggiatrice Valentina Ferlan, si sofferma su una situazione drammatica. Che questa sia il punto di partenza del racconto o il punto di arrivo, è lo stesso, perché a farne le spese è sempre la famiglia del personaggio che rompe le righe o che subisce un danno, e siccome De Matteo è padre di una ragazza che ha la stessa età della protagonista di Mia, il suo coinvolgimento è talmente forte che ciò che si manifesta in un quartiere a sud della capitale ci travolge come una valanga e ci toglie il respiro come un pugno nello stomaco. La stessa cosa è accaduta, durante le riprese, a Edoardo Leo, che ha definito l’esperienza sul set “devastante”, e, nella finzione, al suo personaggio Sergio, padre premuroso di una ragazza di quindici anni che ogni tanto gli appare come un’aliena. Sergio e sua moglie Valeria hanno fatto di tutto per Mia, che prima era la principessina di casa, ma non sono riusciti a proteggerla dalle insicurezze tipiche di una teenager e soprattutto dalla fragilità davanti ai grandi sentimenti. E cosa accade a chi non è attrezzato per fare fronte alle delusioni e alle manipolazioni? La maggior parte delle persone tende ad annullarsi, e allora ad andare in scena, nel nostro caso, è lo spettacolo della depressione giovanile e della fine del tranquillo idillio fra un papà e la sua piccolina, che in cameretta non ha più le bambole ma uno smartphone capace di trasformare la sua vita in un inferno.
Non dà giudizi affrettati Ivano De Matteo in Mia, ma, sconfortato, insiste sull’importanza della presenza, nella vita dei figli, degli adulti, a cui nessuno ha insegnato a essere genitori e a far fronte a una serie di orrori squisitamente contemporanei, e la cosa che inquieta di più è che Sergio per lavoro guida l’ambulanza, e di orrori ne vede già tanti, e ha imparato a tenerli a distanza, ma quando si tratta di Mia, è come se qualcuno gli strappasse di dosso la carne, perché se il bambino di Ladri di biciclette diventava uomo quando vedeva suo padre macchiarsi di una colpa che non lo rendeva più un eroe ai suoi occhi, Sergio non è attrezzato per sopportare la perdita e la vergogna di una figlia che, troppo in fretta, si è trasformata in una donna.
Lo stato è completamente assente dal film di Ivano de Matteo, e allora non resta che farsi giustizia da soli, perché la giustizia legata al rispetto delle leggi è
non si fa troppi scrupoli nel prendere di petto un tema scomodo come quello del bullismo, o più precisamente quello delle conseguenze del bullismo per parlarne con un’urgenza e un’irruenza che finora poco si erano viste nel panorama italiano. Lo fa perché è evidente come per Ivano De Matteo questo tema andasse affrontato senza filtri o patine di sorta, raccontandolo in tutta la sua drammaticità e potenza narrativa cercando di non cedere al qualunquismo o peggio alla retorica. La parabola infernale che Mia attraverso e che anche i suoi genitori attraversano di riflesso viene allora rappresentata con crudezza e una certa onestà nello sguardo, e nei primi due atti si percepisce la volontà di soffermarsi non tanto sul dolore ma su un sentimento ben più scomodo che è quello della solitudine. In un certo senso tutti i personaggi di Mia ci sembrano ad un certo punto soli, ma non perché gli altri non esistano o non intervengano nelle vite di chi sta loro vicino ma perché c’è un’incomprensione di fondo che trascende le differenze generazionali e diventa universale. Questo è probabilmente il momento in cui Mia diventa una pellicola interessante e, a suo modo, atipica nel nostro panorama tanto da far pensare che forse De Matteo volesse prima di tutto raccontare la solitudine e il suo enorme prezzo da pagare.
Mia non è un film, è un pugno che massacra lo stomaco, sale al cuore, esplode. E di quei pezzi ne resta l’ardore, ne resta il fetore. Resta, come un livido, appiccicato nel petto, tra il mento e il sesso, e correre al pronto soccorso non serve, correre al cinema però in questo caso aiuta a realizzare la frangibilità che ci assale, da adulti, da adolescenti, da genitori o da semplici spettatori.
Il film diretto da Ivano De Matteo è tutto l’amore che avete mai provato, richiesto, concesso e nel momento stesso in cui accettate di mettere piede in sala è bene che sappiate che non si torna più indietro e che vi farete male, tanto male. Ma come in tutte le storie, quelle che contano davvero, sarà un dolore catartico, necessario, da accogliere con urgenza dentro di voi. Sentirete l’istinto di sputarlo ma lo terrete lì, come un nodo alla gola, affinché vi ricordi la premura di comunicare, di responsabilizzare, di agire e di capire. Ivano De Matteo e la compagna Valentina Ferlan si cimentano in un’impresa cinematografica e genitoriale in cui la stesura della sceneggiatura diviene terreno di elaborazione delle paure più recondite, foglio sul quale rovesciare le domande senza risposta e in cui condividere l’inadeguatezza a cui madri e padri si ritrovano a far fronte quando i propri figli vengono invasi dalla tempesta ormonale dell’adolescenza. In quell’altalena di gioie e dolori in cui ogni giorno sa essere meraviglioso e tremendo insieme, Ivano e Valentina si addentrano mano nella mano (come da trentaquattro anni a questa parte), tremanti e coscienti di non avere mezzi mai abbastanza esatti per comprendere un linguaggio che muta repentinamente. Per tale ragione Mia diviene quasi un lavoro di gruppo, un laboratorio di emozioni ed esperienze in cui l’idea stessa di confezionare un film potrebbe benissimo passare in secondo piano, riducendosi a semplice pretesto per focalizzarsi sulla sfera più preziosa della nostra società: i giovani, così duri e così fragili.
Mia mostra la dura e al contempo leggerissima vita adolescenziale. I video su TikTok, le feste, le partite di pallavolo, la scuola, i piercing, le maschere di bellezza fatte in casa e i compiti di greco da recuperare sono testimonianze di un tempo che è contemporaneo ma che ci fa anche viaggiare indietro, nel tempo della fanciullezza individuale. Nonostante spesso lo spettatore abbia modo di calarsi nelle mente e nel cuore di Mia, il film di De Matteo non è un semplice teen drama bensì un’opera di formazione in cui al punto di vista dei figli si alterna quello dei genitori: due sguardi che si compenetrano per tentare di capirsi meglio, in uno sproloquio di incomunicabilità capace di bruciare l’anima.
Palesandosi nei confini di un nucleo familiare, l’opera si prende la naturalezza di lasciare aperto il recinto del mondo fuori, affinché possa a suo modo contaminare, di bellezza o brutalità. Dopotutto la famiglia è la particella più piccola della società, il terreno in cui sperimentare l’umanità nelle sue sfaccettature più ataviche ed evolute e questo gli autori lo sanno e ne sfruttano la carica emotiva e ideologica per coccolare lo spettatore con tante piccole accortezze, per poi farlo precipitare giù da un balcone e lasciarlo rantolante al suolo, tramortito da un colpo basso inatteso, incapace di reagire.
Perché Mia non parla solo delle fragilità che attanagliato gli adolescenti ma anche e soprattutto di quelle che tormentano i genitori, consapevoli di dover stare al loro posto mentre i propri figli vanno incontro al dolore più acuto. Stare lì, a distanza di sicurezza, come se fossero colpevoli ed estranei, cercando la parola più delicata, che funga da faro nella tempesta. Stare lì, senza poter evitare il crollo, ma pronti a riattaccare i pezzi di chi amano più di loro stessi. Sergio e Valeria potrebbero essere chiunque, probabilmente in qualsiasi parte del mondo e in qualsivoglia tempo: i loro volti e i loro corpi sono solo degli avatar su cui si cuciono addosso i sentimenti di chi ama incondizionatamente.
(…)