Memory

Michel Franco

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A New York, Sylvia ha appena completato un percorso negli alcolisti anonimi e può dire di aver rimesso in sesto la sua vita, con un lavoro in un centro di assistenza, la guida severa ma presente per la figlia Anna, e un rapporto stretto con la sorella Olivia e la sua famiglia. Dopo una reunion del liceo, però, Saul la segue fin sotto casa e rimane ad attendere sotto la finestra per tutta la notte.
DATI TECNICI
Regia
Michel Franco
Interpreti
Jessica Chastain, Peter Sarsgaard, Brooke Timber, Merritt Wever, Elsie Fisher, Jessica Harper, Josh Charles, Blake Baumgartner
Durata
100 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Michel Franco
Fotografia
Yves Cape
Montaggio
Óscar Figueroa, Michel Franco
Distribuzione
Academy Two
Nazionalità
USA, Messico
Anno
2023
Classificazione
6+
Attività

Presentazione e critica

Non è mai troppo tardi. E così un autore che per anni ci è sembrato respingente con la sua idea di cinema fredda e cerebrale, ci costringe – almeno stavolta – a ritornare sui nostri passi e a prendere differenti misure nei confronti di questa love story (im)possibile tra una donna e un uomo che, per motivi differenti, sono costretti a fare i conti con la loro identità. Sylvia è una madre single con una figlia di 15 anni e un passato di abusi e alcolismo con cui fare i conti. Una sera si imbatte in un uomo misterioso che comincia a seguirla senza dire una parola. L’uomo rimane tutta la notte sotto al portone. Dorme sul marciapiede, perde i sensi. Sylvia la mattina dopo scopre che Saul è affetto da demenza senile. Perché l’ha seguita? Ha a che fare con il suo drammatico passato? Oppure l’uomo, che non ricorda nulla, si è innamorato di lei? New York è sullo sfondo, ma con i suoi attraversamenti in metro, le passeggiate nei parchi, gli interni degli appartamenti è una protagonista in più, capace di trasformarsi da prigione a spazio re-inventato a seconda degli stati d’animo dei personaggi. Così come la bellissima A Wither Shade of Pale dei Procul Harum, il classico anni ’60 ascoltato ossessivamente da Saul, che diventa gradualmente la colonna sonora del film con un’intensità che rimanda all’episodio diretto da Martin Scorsese in New York Stories.

 

Si può certamente discutere quanto il cinema di Franco abbia sempre la necessità programmatica di aggrapparsi a polarizzazioni drammaturgiche e caratteriali, come se avesse facoltà di esistere solo in una continua sollecitazione del dolore. È vero. Eppure stavolta i respiri, i silenzi, i battiti cardiaci, le traiettorie e i corpi vivono sullo schermo. Sylvia ha un passato da dimenticare, Saul un passato che non ricorda più. La presenza/assenza di memoria fa da collante a due personaggi che in qualche modo possono esistere insieme solo per brevi attimi: il tempo della memoria breve di Saul da una parte e l’istinto a superare i traumi dei ricordi e a ricominciare finalmente ad amare, come fosse il “primo bacio” o la “prima volta a letto” di Sylvia. Il film è tutto nel desiderio – dei personaggi e dello spettatore – di vedere due tempi diversi riconoscersi e di sperimentare un amore finalmente libero di esprimersi “senza passato”. Così per certi versi, l’ottavo, e decisamente migliore, film di Michel Franco sembra quasi l’espansione da melodramma da “camera” di quei bellissimi 15 minuti de Il curioso caso di Benjamin Button, in cui Brad Pitt e Cate Blanchett si incrociavano per poco tempo, quasi coetanei, a vivere fino in fondo la loro storia d’amore e di memorie.

“A volte è la marginalizzazione stessa a offrire una via di fuga dalle ombre del passato, una possibilità di costruire una vita nel presente” dice il regista sul suo film. Ecco allora che Memory non può che essere, paradossalmente, la storia d’amore ideale, da consumarsi esclusivamente nel “qui e adesso”. Una storia drammatica e straziante, certo, ma di ragazzini in corpi di adulti, che infatti nessuno capisce veramente tranne la figlia – la bravissima Brooke Timber – che non a caso alla fine diventa il deus ex machina, forse l’unico vero “personaggio maturo” del film, capace di crescere scena dopo scena. Mentre Sylvia e Saul per stare insieme devono in qualche modo tornare adolescenti – non a caso il loro primo incontro avviene proprio in un anniversario scolastico – e rompere con le loro rispettive e ingombranti famiglie, la figlia ha l’obbligo di crescere nel corso del film per vedere e credere nella coppia. Così in un finale bellissimo e sorprendente è lei a riportare Saul da Sylvia e a consegnarci l’intensità di un abbraccio finale che, grazie al cinema, da oggi in poi, può durare in eterno.

 

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È proprio a colpi di rimosso che si sviluppa l’avvicinamento tra Sylvia e Saul, che nelle rispettive mancanze di definizione mnemonica trovano terreno comune. Dal trauma, anche quando non lo si riesce a mettere a fuoco, ci si aspetta sempre un ritorno violento e distruttivo, ma per gli standard di Franco questo gruppo di individui arriva vicino come non mai a una catarsi quasi sana.

Attorno ai due protagonisti – Jessica Chastain è come sempre un mostro di precisione accademica nell’incarnare un personaggio guardingo, barricato dietro molteplici barriere emotive di titanio – c’è un cast di varia prossimità familiare che non solo include caratteristi eccelsi come Merritt Wever e Josh Charles, ma apre il film a una sottile e scomoda esplorazione di temi di classe nella società americana e di disparità tra coppie di fratelli e sorelle, visto che sia Sylvia che Saul pagano sventure di cui non hanno colpa con uno status subalterno dentro il nucleo familiare rispetto a Olivia e Isaac. Figli prediletti e decaduti, vittime sacrificali per il successo altrui la cui sfida è lasciare indietro quel passato – così inaffidabile e menzognero nel ricordo – per mettere a fuoco il presente.

 

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Dopo Sundown, Michel Franco torna ad indagare – letteralmente – i rapporti umani, allungando lo sguardo su due solitudini messe in contatto tra loro, generando la scintilla che accende la sceneggiatura. Nella sua formale visione emotiva, che si liberà da certi schemi solo nella seconda – e migliore – metà del film, il regista messicano cambia il colore del film, scaldando la scena, e quindi scaldando i reciproci sentimenti che rimbalzano tra schermo e spettatori. Dall’altra parte, Memory, presentato in concorso a Venezia 2023, nella sua stratificata struttura, si rifà ad un certo cinema melodrammatico, declinandolo però sotto forma di trattato psicologico, che illumina, forse un po’ troppo frettolosamente, le dinamiche mentali, e quindi empatiche.

Lo abbiamo detto: un film di solitudini scoperchiate, di memoria, di rapporto con il passato, di relazioni umane e di ricordi spezzati, e ricomposti in una scena estemporanea (che non vi riveliamo) che, da sola, vale la visione. Memory è un film di domande, che si aprono senza necessariamente chiudersi. Del resto, i migliori film sono quelli che suggeriscono senza sentenziare, prediligendo una semplicità narrativa efficace nel tratteggiare i personaggi che, per struttura, diventano persone. Credibili, vere, fragili, vulnerabili. Un caos e un tumulto ragionato, i residui di una vita che scricchiola, e la pazzia come ragionato metro emotivo, tra l’istinto e la confusione. La stessa emotività che, poco alla volta, cresce e monta, di pari passo alle consapevolezze (ri)acquisite della protagonista, Sylvia. Ha una figlia, Anna, porta con sé lo strascico di una dipendenza alcoolica (fa parte di un circolo di alcolisti anonimi), e ha scelto come lavoro quello dell’assistente sociale. Aiuta gli altri per aiutare, forse, anche se stessa. Un giorno, però, durante una di quelle annoiate rimpatriate scolastiche, incontra Saul (Peter Sarsgaard, che bravo). O meglio, Saul, senza un apparente motivo, la segue fino a sotto casa, passando la notte sotto la pioggia. Ciò che potrebbe risultare inquietante, è invece l’occasione per Sylvia per ricucire la propria esistenza, anche dolorosa, aprendosi ad un presente spiegato da un uomo con marcati (ma cinematograficamente solo accennati) problemi mentali, nonché afflitto, anch’esso, da un passato contorto, livido e doloroso.mCome fosse un gioco da tavola (nel film ce ne sono diversi, da Monopoly a Indovina Chi?), Memory prosegue per caselle, avanzando di volta in volta verso quella successiva. Una casella dopo l’altra, viene ricomposta la memoria di Sylvia e Saul, che si liberano da ogni sovrastruttura per concedersi una sparuta relazione amorosa, sfidando sé stessi, la loro dimensione, addirittura i loro istinti, combattuti e stropicciati sotto i mastodontici traumi passati, prima suggeriti e poi sommessamente rivelati, irrompendo nell’umore, tanto dolce quanto dilatato, aggiungendo una sfumatura velatamente noir. Ma, come ogni gioco da tavola, si può anche tornare indietro, ripartendo dal via: Michel Franco, con una certa bravura e un certo gusto estetico (pochi campi e controcampi, ma un inquadratura che contiene tutti gli elementi necessari), ci rende attivi e commossi partecipi (una commozione composta, silenziosa, elegante), seguendo il racconto e, intanto, mettendo in scena l’impossibilità odierna di evadere dalle conformazioni sociali, che etichettano e imprigionano, azzerando il necessario ossigeno. Appunto, avanti e indietro. Sylvia e Saul, palline in un flipper andato in tilt, entrambi alla ricerca di un contatto capace di accendere la luce. La stessa luce che sfrutta al meglio Franco, indirizzando la fotografia di Yves Cape verso tonalità soffuse, quasi oniriche, sognanti. Del resto, Memory, parte dalla psiche dei personaggi e si allarga, invadendo le immagini e, metaforicamente, scendendo verso i corpi dei protagonisti, in una struttura cinematografica che non può non toccare le corde più intime. Suscitando un brivido che potremmo chiamare emozione.

 

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