Maria

Pablo Larraín

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Maria, film diretto da Pablo Larraín, racconta la vota di una delle più grandi cantante liriche al mondo, Maria Callas, soffermandosi sui suoi ultimi giorni nella Parigi degli anni '70.
DATI TECNICI
Regia
Pablo Larraín
Interpreti
Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Kodi Smit-McPhee, Valeria Golino, Haluk Bilginer, Caspar Phillipson, Alessandro Bressanello, Jeremy Wheeler
Durata
124 min
Genere
Biografico
Drammatico
Sceneggiatura
Steven Knight
Fotografia
Edward Lachman
Montaggio
Sofía Subercaseaux
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
Germania, USA, Italia
Anno
2024

Presentazione e critica

Il 16 settembre 1977 Maria Callas muore a 53 anni nel suo appartamento di Parigi, dove viveva sola con l’unica compagnia dei fidatissimi Ferruccio, autista e maggiordomo, e Bruna, la domestica. Nella settimana precedente alla morte, e a più di quattro anni dall’ultima performance, la straordinaria soprano greco-statunitense fa i conti con il peso della sua fama, con il ricordo ancora forte del compagno Aristotele Onassis e, forse, con un ultimo tentativo di tornare a calcare i palcoscenici dell’opera, pur indebolita e con una voce nella quale lei per prima non riconosce più il timbro de “la Callas” e delle sue indimenticabili interpretazioni.

Chissà se quella di Pablo Larraín ha sempre voluto essere una trilogia, o se i suoi ritratti di icone femminili del ventesimo secolo – colte sul precipizio della tragedia in una perenne lotta tra identità e aspettative esterne – si sono semplicemente affastellati uno sull’altro come dei bellissimi misteri insolubili.
Fatto sta che, dopo aver visitato Jacqueline Kennedy nei drammatici momenti successivi all’assassinio del presidente suo marito, e Diana Spencer prigioniera in una casa degli orrori reali, il regista cileno aggiunge un’artista al gruppo narrando con eleganza e riserbo degli ultimi giorni di una Maria Callas brillantemente
interpretata da Angelina Jolie. Proprio la diva americana sembra quasi risolvere – nei panni di un’icona globale come la più celebre delle cantanti liriche – il grande equivoco della sua carriera, lei stessa troppo icona per essere anche attrice, condannata da un magnetismo regale a trovarsi in perpetuo eccesso dei personaggi “normali”.

Con una vita alle spalle e un successo già incastonato nella storia, Maria Callas è in quell’ultima settimana parigina un puro simbolo, che chiude gli occhi e vede il teatro, che va al ristorante per essere ammirata ma torna a casa per sentirsi amata dai suoi due protettori (Favino e Rohrwacher, di delizioso supporto). Jolie ne prende le redini con agio, canta in un’unione di voci e come tema principale sceglie la ricerca di controllo: della sua legacy come della sua privacy, delle sue emozioni e delle sue fragilità; soprattutto, del suo gran finale. Più di ogni altra cosa il film è uno studio su come si scriva, e prima ancora si pensi, una conclusione; il senso di una fine, come in Frank Kermode, è un istinto che si applica bene tanto al terzo atto della Callas quanto a Larraín e alla sua tribù di donne a cui il mondo non smette di chiedere conto. Con abile e suggestivo uso di materiali d’archivio uniti alla solita squisita fotografia (una composizione insieme classica e barocca, “graffiata” qua e là dalla camera a mano che gli è cara) il regista insegue la sua stella per l’appartamento e posiziona strategicamente quegli inserti lirici che lei non vuole mai (ri)sentire: la Norma, la Traviata, Tosca, che dai più grandi teatri del mondo si insinuano di ritorno in quella casa sull’Avenue George Mandel. Alla scrittura c’è Steven Knight in una forma migliore rispetto agli ultimi anni, compreso proprio Spencer, a cui nuoceva la sovraesposizione mediatica di Diana e i rischi di un mimetismo interpretativo a cui Maria si sottrae. Suoi sono dei dialoghi brillanti e dei meta-incroci che mettono in corto circuito la stessa trilogia di Larraín, in un gioco di presenza-assenza tra Onassis, Kennedy e quella Jackie che li lega. Alla fine tocca a Maria trovarsi di fronte il presidente e a riconoscersi come parte di “quel ristretto gruppo di persone che possono andare ovunque nel mondo, ma che non possono mai scappare”.

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Una voce come quella di Maria Callas nasce probabilmente ogni cento anni. Forse anche di più. Qualcosa di così stupefacente da toccare corde che trascendono il sentimento e l’emotività, per arrivare a qualcosa di più grande, misterioso. Quasi divino. Sono pochissimi gli artisti in grado di fare questo. La Callas era una di loro. Eppure anche lei ha dovuto lottare tutta la vita con le due parti di se stessa: “la Callas”, appunto, la divina, e Maria, ragazza greca povera sfruttata da molti, perfino sua madre. E soprattutto dall’uomo che ha amato: quell’Aristotele Onassis che ha deciso di rubarla non soltanto a suo marito, ma a tutti noi, mettendosi tra lei e il canto. Dopo Jackie Kennedy e Diana Spencer, Pablo Larraìn ha deciso di concludere il trittico dedicato a grandi icone del ‘900 proprio con la leggendaria soprano, interpretata da Angelina Jolie, intitolando il film Maria. Facendo quindi una scelta precisa.
E, ancora una volta, proprio come nelle pellicole precedenti, Maria, presentato in concorso all’81esima Mostra del Cinema di Venezia, è un racconto di fantasmi: Larraìn ci porta nella sua casa di Parigi, ormai un mausoleo, per assistere agli ultimi giorni della donna. La Callas, e soprattutto la sua voce, se n’erano già andati da tempo. Ad accudirla i domestici, Ferruccio e Bruna, interpretati da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che, come li definisce la stessa cantante, le hanno fatto da padre, madre, fratello, sorella, figlio e figlia. Gli affetti per la voce più bella del secolo, come la definisce il regista, sono stati infatti molto complicati.

Il padre era rimasto a New York, dove Maria Callas è nata, nel 1923, mentre lei e la sorella Iakinthi (Valeria Golino) erano tornate in Grecia con la madre, trascorrendo lì il periodo della Seconda Guerra Mondiale. L’unico figlio maschio, Vasili, il secondogenito, morì prima della nascita di Maria. E pare che, proprio perché femmina, la madre abbia sempre provato rancore per la figlia più giovane, perché non le ha permesso di sostituire il maschio, che tanto voleva. Qualcosa che ha scavato nel profondo di Maria Callas: nonostante i successi, non ha mai smesso di cercare l’adulazione delle persone, avendo sempre in mente le parole della genitrice, che le diceva di essere grassa, brutta e immeritevole di amore. Insomma una voce umana, molto umana, quella della Maria di Pablo Larraìn, segnata dal dolore. E, come dice la protagonista: “La musica nasce dalla sofferenza: la felicità non ha mai prodotto una bella melodia”. Ed è quindi sul dolore che Larraìn si concentra: quello provocato dalla perdita e dalla malattia. Ormai magrissima e dipendente da farmaci, Maria Callas a 50 anni aveva compromesso il proprio fisico e la voce che l’ha resa immortale. Ma soprattutto era entrata in una profonda depressione, che l’ha spinta a isolarsi dal mondo. Una tigre però, come si definisce lei stessa, non può rinunciare all’essere ribelle: la sceneggiatura di Steven Knight si concentra su questo aspetto in particolare, sul tentativo di trovare la propria voce. Almeno alla fine. Che è paradossale per qualcuno la cui esistenza è stata basata proprio sul canto.

Costretta a esibirsi per i soldati tedeschi dalla madre, ostacolata dal compagno Onassis che voleva spingerla ad abbandonare la lirica, Maria decide di uccidersi cantando per sé: “L’opera è la mia vita e non c’è ragionevolezza nell’opera”, dice a chi vorrebbe convincerla a curarsi. Questa unione totale tra l’arte e la vita è ciò su cui evidentemente Pablo Larraìn si identifica di più e, per sottolineare il proprio dialogo con l’artista, le fa immaginare di parlare con un giornalista a cui raccontare la sua storia. Vuole girare la sua biografia Maria Callas, andando alla ricerca dei ricordi e soprattutto della “canzone umana”, come la chiama lei. Non importa se questo film è solo frutto della sua immaginazione: “Cosa è reale e cosa no è affar mio”, dice. E così anche nel raconto di Larraìn.
In un gioco di simmetria perfetta, Larraìn fa dialogare la sua Jackie, qui solo nominata, con la sua Maria. Nel mezzo c’è Diana. A differenza delle altre due però, diventate icone soprattutto per la propria posizione sociale, che ha finito per ingabbiarle nonostante i privilegi donati loro, Maria Callas si è imprigionata da sola. Lo sottolineano gli spazi in cui il regista ritrae le tre donne: mentre Jackie Kennedy e Diana Spencer sono quasi sempre confinate in spazi chiusi, la cantante vaga per le strade di Parigi, circondandosi sì di fantasmi e illusioni, ma in piena libertà. È lei a decidere. Pensare che una donna così straordinaria si sia autodistrutta è qualcosa che fa malissimo. E allo stesso tempo la rende una figura tragica e comprensibilissima. Proprio come le eroine che ha interpretato sui più grandi palcoscenici del mondo.
Per portare sullo schermo questo dramma ci voleva una grande attrice. Se, su carta, Angelina Jolie, per la scarsissima somiglianza con la vera cantante, non sembrava la scelta più adatta, su schermo tutto cambia. Erano anni che l’interprete non brillava così al cinema. Dai tempi di Changeling di Clint Eastwood. I movimenti delle mani, i respiri e soprattutto gli occhi di Jolie sono magnetici e strazianti. Nel finale, in un crescendo di dolore, è difficile non commuoversi. Questa potrebbe essere la prova migliore di tutta la sua carriera.
“Un brano non dovrebbe mai essere perfetto: andrebbe interpretato nel momento, diverso ogni volta”, dice sempre la divina. Nel canto d’addio di questa artista e donna straordinaria, che ha vissuto d’arte e d’amore, c’è tutto. Rimarrà con voi a lungo. Con Maria Pablo Larraìn chiude la sua trilogia dedicata a tre icone del ‘900: dopo Jackie Kennedy e Diana Spencer, si fa travolgere da Maria Callas. Figura tragica e ribelle, dotata di una delle voci più straordinarie di sempre, ma che si è autodistrutta. A interpretarla Angelina Jolie in una prova da Oscar. Forse la migliore della sua carriera.

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