L’uomo di argilla

Anaïs Tellenne

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Raphaël, non più giovane e con un occhio solo, lavora come custode di un castello nobiliare nel nord della Francia vivendo con la madre nella casa di servizio della grande dimora. L'arrivo in piena notte dell'unica proprietaria del castello, l'artista Garance, sconvolge la vita di Raphaël: tormentata e affascinante, Garance convince l'uomo a posare per una grande scultura d'argilla e così facendo libera in lui l'animo del sognatore, avvicinandosi per la prima volta in vita sua all'amore e al piacere.
DATI TECNICI
Regia
Anaïs Tellenne
Interpreti
Raphaël Thiéry, Emmanuelle Devos, Marie-Christine Orry, Mireille Pitot, Alexis Louis Lucas, Vincent Thomas, Cesare Capitani, Zoran Boukherma, Ludovic Boukherma
Durata
94 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Anaïs Tellenne
Fotografia
Fanny Mazoyer
Montaggio
Héloïse Pelloquet
Musiche
Amaury Chabauty
Distribuzione
Satine Film
Nazionalità
Francia, Belgio
Anno
2023

Presentazione e critica

Raphaël, non più giovane e con un occhio solo, lavora come custode di un castello nobiliare nel nord della Francia vivendo con la madre nella casa di servizio della grande dimora. L’arrivo in piena notte dell’unica proprietaria del castello, l’artista Garance, sconvolge la vita di Raphae¨l: tormentata e affascinante, Garance convince l’uomo a posare per una grande scultura d’argilla e così facendo libera in lui l’animo del sognatore, avvicinandosi per la prima volta in vita sua all’amore e al piacere. L’opera prima di Anaïs Tellenne, presentata nel 2023 nella sezione Orizzonti Extra della Mostra di Venezia, svela il lato sconosciuto di un’opera d’arte: l’origine del suo soggetto, la vita nascosta dietro la materia plastica modellata.

Raphaël, il protagonista del film, ha il fisico inconfondibile dell’interprete (e qui anche autore del soggetto) Raphaël Thiéry, che già Pietro Marcello in Le vele scarlatte aveva ripreso come una figura da fiaba nera: un orco dall’animo gentile, condannato a generare timore («Voglio che mi fai paura» gli dice all’inizio la postina Samia, con la quale allestisce grottesche scene di dominazione sessuale), ma animato da sogni di bellezza e creatività (suona la cornamusa in una band di musica tradizionale e la notte compone una sua melodia triste e bellissima). In un ambiente aristocratico e decadente che ricorda i film di Otar Iosseliani (Caccia alle farfalle, Addio terraferma), la regista è brava a creare un’atmosfera fiabesca e fuori dal mondo, con la pioggia o il vento ad accompagnare l’ingresso in scena o gli umori dei personaggi e il chiaro di luna a scontornarne le figure sullo sfondo. Dentro una cornice sia pittorica sia letteraria (a cui comunque l’ironia dello sguardo della servitù, e soprattutto dell’anziana madre di Raphaël, toglie un possibile eccesso di elegia) il rapporto fra servo e padrona tra Raphaël e Garance (interpretata da Emmanuelle Devos, al solito algida e dolce insieme) si trasforma nella relazione tra un’artista e il suo modello e, almeno nei sogni del custode, in quella ancora più intima tra un uomo e una donna innamorati.

Chi c’è dietro la statua del sognatore che Garance alla fine realizza? Un innamorato illuso o un uomo che grazie all’arte ha saputo liberarsi? E quindi, seguendo il ragionamento che in modo fin troppo esplicito la sceneggiatura suggerisce nel finale, chi è la musa di chi in L’uomo d’argilla? Il rozzo servitore che ispira la scultura all’artista concettuale o la donna tormentata e geniale che insegna al sognatore a realizzare almeno per un attimo i suoi sogni? In fondo, Garance e Raphaël non sono così distanti, almeno fisicamente: lui è segnato dalla sua menomazione, lei, sfidando i preconcetti della società patriarcale, in passato si è fatta tatuare sulla pelle i tagli di carne dei macellai e si è distesa dentro un bancone alimentare.

Sono entrambi corpi, dunque, entrambi forme superficiali: lui il villano un po’ tonto, lei la ricca decadente. Solo nel reciproco incontro, mentre alle loro spalle il paesaggio “parla” (splendida la camminata notturna nella campagna e significativo che proprio lei, scolpendo il volto di lui, lo definisca «un paesaggio»), Garance e Raphaël diventano qualcosa d’altro, di diverso: non necessariamente di autentico (in fondo tra loro non potrà mai esserci nulla, troppa è la distanza sociale che li divide), ma di unico e irripetibile. Come un’opera d’arte da osservare bene, superando l’impressione del primo sguardo e soffermandosi sulle pieghe del materiale. Umano, nel caso del film.

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Artista, opera e soggetto. È tutta una questione di sguardi. Ma cosa resta dello sguardo dell’artista che si è posato sul soggetto? Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? Sono queste le domande che si pone Anaïs Tellenne, al suo primo lungometraggio da regista. L’uomo d’argilla racconta la storia di Raphaël, un uomo con un occhio solo e dalla statura imponente che lavora come custode di una maestosa villa disabitata. Prossimo ai sessant’anni, vive con la madre in una piccola casa nei pressi della villa. Le sue giornate scorrono tranquille tra la caccia alle talpe, la pratica con la cornamusa e le occasionali scappatelle con la postina. Durante una notte tempestosa si presenta inaspettatamente l’affascinante Garance, l’erede della tenuta, nonché artista concettuale parigina.

Negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere la fisicità eccezionale e lo sguardo di ghiaccio di Raphaël Thiéry in Le vele scarlatte di Pietro Marcello e in Povere creature! di Yorgos Lanthimos. Un viso marcato nelle sue imperfezioni che può trasmettere tanto; malinconia, durezza, tenerezza. La regista sfrutta a pieno le doti naturali del protagonista per trascinarci nel suo immaginario prima umile e semplice, poi più complesso e stratificato. Raphaël non aveva mai conosciuto l’amore, forse non si era neanche mai posto il problema. L’arrivo di Garance squarcia l’equilibrio che si era creato permettendogli di affacciarsi sul mondo e osservarlo con uno sguardo nuovo, anche se incompleto. Garance riesce a vedere aldilà della superficie, scorge la sensibilità che si nasconde in quell’occhio umido e in quel corpo granitico, o meglio, argilloso. Se tutti gli altri abitanti del paese lo vedono come un golem, lei ci vede un “paesaggio”, anche se in tutta onestà la madre non riuscirebbe a vederlo su una cartolina. L’artista sente il bisogno di proiettare queste sensazioni su una statua di argilla che diventa ben presto oggetto feticcio/transazionale e rappresentazione fisica del loro legame.

Il rapporto tra musa e artista può essere davvero potente, soprattutto se, come in questo caso, lo sguardo si proietta dall’alto in basso in maniera totalmente disuguale. Nonostante la profonda sensibilità artistica di Garance, si tratta di due individui di estrazione socioculturale completamente diversa. Una distanza difficile da colmare. Il quesito che si pone la regista è lo stesso che ci si potrebbe porre quando si parla di cinema documentario o cinema del reale. Che effetto ha lo sguardo dell’autore sul soggetto ripreso? Cosa resta di questa dinamica di potere univoca soggetto/oggetto?

La regista gestisce in maniera impeccabile le fasi di innamoramento di Raphaël alternando campi medi e primi piani del suo corpo in trasformazione. L’uomo d’argilla colpisce ed emoziona nei momenti in cui il protagonista si mette realmente a nudo e si apre utilizzando la musica come mezzo di espressione. Capita raramente di osservare il percorso di un personaggio così complesso raccontato in maniera così toccante, senza dover fare uso di assurdi stratagemmi narrativi o improbabili svolte inaspettate. Si tratta di un film piccolo ma molto significativo, una scoperta piacevole e inaspettata.

Sentieriselvaggi