Amarsaihan Balžinnâmyn
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Proprio come accade nel film, scevro da ogni orpello, e invece vicino alla sostanza emozionale, non servirebbero molte parole per raccontarlo. Del resto, asciugato da ogni pretesto cinematografico, L’ultima luna di settembre sfila dolce e poetico, facendoci gustare una lentezza mai strabordante o schematica, piuttosto funzionale all’idea filmica dell’esordiente Amarsaikhan Baljinnyam. Il suo, in fondo, è un film che viene da lontano, da lontanissimo: respiriamo l’odore umido della tarda estate, dell’erba verde che si ingiallisce, seguendo il profilo delle morbide colline della Mongolia. Un posto magico, sospeso, dove il tempo non esiste, nel quale ogni parvenza moderna è affidata ad una vecchio cellulare che non ha segnale. Perché per Baljinnyam, il vero protagonista è il paesaggio. Un contesto limpido, che spaventa e calma allo stesso tempo. Sentiamo l’infinito, sentiamo la vita lenta, la stasi delle immagini, come fossero tele dipinte, in cui i colori prendono vita: il giallo, il verde, l’azzurro. Ecco, mentre scriviamo la recensione, c’è venuto in mente un parallelo: L’ultima luna di settembre – che ha vinto diversi premi in giro per il mondo – è un film color pastello. Un film che ricorda i disegni fatti dai bambini, dove tutto è riassunto in una semplicità umana che, anno dopo anno, si scheggia e si perde. Una manciata di elementi, e l’occasione per delineare una geografia sconosciuta, distante dal nostro universo, e pure accomunata dallo stesso identico cielo. Nonostante la proverbiale lentezza, L’ultima luna di settembre non mette paletti tra la storia e lo spettatore, cullandoci in una dimensione che accogliamo immediatamente. Storia che ha per protagonista Tulgaa (interpretato dallo stesso Amarsaikhan Baljinnyam), tornato nello sperduto villaggio rurale per assistere l’anziano padre durante gli ultimi giorni di vita. Nonostante sia poco avvezzo ai ritmi analogici, Tulgaa decide di restare lì, portando a compimento il lavoro lasciato a metà da suo padre: lavorare nei campi, completando il raccolto prima della fine di settembre.Qui, tra i campi e le giornate che non finiscono, incontra Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), un bambino di dieci anni che vive con i suoi nonni, intanto che la madre lavora in città. Tra i due, nemmeno a dirlo, nascerà un rapporto profondissimo, che Baljinnyam prova a spiegare più con gli sguardi che con le parole. Un rapporto padre e figlio, di quelli istintivi, fugaci nella loro passeggera bellezza. Perché il tempo, pur immobile, non aspetta nessuno: e quando arriva l’ultima luna, Tulgaa dovrà scegliere se restare oppure tornare in città.Lo stesso dubbio che, per un istante, si palesa nello spettatore, alla fine del film: restare ancora un po’ con Tuntuulei e Tulgaa, o tuffarsi di nuovo nei ritmi estremi dell’Occidente? Insomma, restare con gli occhi chiusi, o aprirli? Per un momento, L’ultima luna di settembre ci lascia lo spazio per abbracciare un’idea che, da spaventosa, risulta invece folgorante nel suo estremo paradigma confortante: dobbiamo tornare a respirare, dobbiamo riappropriarci degli spazi emotivi, tornando ad ascoltare invece che a parlare. Dunque, un film d’ascolto, un film di dolcezze e di poesie, che sposta i piani narrativi verso un’apertura concreta, senza artifici o ridondanze (esempio: è totalmente assente la colonna sonora, tutti i suoni sono diegetici o affidati alla natura), seguendo solo e soltanto il flusso emotivo dei due protagonisti (fino ad un finale agrodolce). Una scelta vincente, e suggestiva: la misura generale, pur impervia per il grandissimo pubblico (ripetiamo, il ritmo abbraccia una pragmatica lentezza), delimita una storia di sentimenti e di appartenenza, di terra e di scoperte, avanzando con un umore in continuo cambiamento. Come cambia repentinamente il cielo sopra gli altopiani della Mongolia, quando il sole si incontra con la pioggia, in un ciclo infinito che si ripete, puntuale, ogni ultima luna di settembre.
Il cinema secondo Amarsaikhan Baljinnyam – per estensione, il cinema mongolo che cerca d’imporsi all’attenzione internzionale – è questione di spazio e di tempo. Spazi sconfinati, immensi, spopolati: la campagna mongola è la casa delle tradizioni, il luogo degli affetti ma anche una sintomatica lontananza dalla città, dalla civiltà e dal progresso. Una distanza forse incolmabile; Tulga è destinato, nonostante la riscoperta di un più autentico contatto con le sue radici, a tornare in città. I tempi: molli, dilatati, sincronizzati al millesimo sull’ampiezza dei paesaggi e degli ambienti. L’ultima luna di settembre, andrebbe visto in sala perché il contrasto tra l’esplorazione dell’intimità dei personaggi e la vastità di ciò che li circonda merita le corrette proporzioni, è un’indicazione abbastanza precisa di un modo di interpretare il cinema che è “altro”, diverso da noi, almeno dal punto di vista formale. Va accolto con curiosità e senza paure. Anche perché il cuore del racconto, la sostanza insomma, è universale. La storia di un padre e figlio che si scelgono reciprocamente. Si trovano, si studiano, si amano: l’amore più forte del sangue. Genitori e figli, oltre i parametri biologici. C’è troppa distanza tra i due, pratica e simbolica, perché questo legame possa concretizzarsi oltre la felice parentesi della vita nel villaggio: la civiltà prevale sulle tradizioni. Ma il bilancio non è in perdita o senza speranza. Tulga e Tuntuulei – il suo interprete, Tenuun-Erdene Garamkhand, ha uno sguardo fiero e una bella intensità, molto bravo – hanno modo di colmare i reciproci vuoti emotivi. Oltre i risvolti dolceamari di un sentimento che nasce effimero, L’ultima luna di settembre nasconde uno sguardo sul mondo tenero e molto dignitoso, la riscoperta delle tradizioni e di un modo di affrontare la vita e i suoi problemi diverso dai ritmi frenetici, forse ineludibili, della grande città.
(…) Un film lontanissimo dalla retorica in cui la società industrializzata guarda con pentimento alla natura selvaggia, ma è piuttosto un’osservare rapito qualcosa di sterminato. Con silenzi totali, spazi infiniti e colori pieni, il regista riesce a restituire un’esperienza immersiva e bellissima nel mondo che ama. Gioca tanto col tempo filmico dilatandolo, stringendolo, annullandolo solo per farci sentire cos’è la vita in quei luoghi.Tutto in questo lungometraggio insegue il valore dell’autentico. Che si tratti della bellezza della natura, di relazioni profonde o di un viaggio alla scoperta di sé ogni elemento è genuino, vero. Una fotografia ispirata e degli ambienti fantastici, gettano lo spettatore in una situazione sulla soglia dell’onirico per riscoprire la bellezza di ciò che ci circonda e farsi rapire dalla maestosa immensità della natura. Isolati e costretti al silenzio di fronte a cotanta magnificenza. Nel più naturale mondo del pensiero.Totalmente ambientalista, nel senso più virtuoso possibile, celebra un magnifico spettacolo. Tante storie universali. Quella tra padre e figlio e tra natura e tecnica. Nella prima i due si scoprono e alla fine si scelgono l’un l’altro, andando oltre i riduttivi legami biologici. Nel secondo il risultato è lasciato in sospeso, in un’ambiguità obbligata. Ne emerge un affresco di toccante tenerezza, come detto poche sono le parole e tanti i silenzi. Gli spazi sconfinati aiutano a conoscersi e ad imparare ad amarsi. Per Amarsaikhan Baljinnyam la campagna mongola è la casa delle tradizioni, il luogo degli affetti ma anche della nostalgia. E questa distanza è forse incolmabile. Nonostante tutto, infatti, Tulga è destinato a tornare in città. L’ultima luna di settembre vive di questa bellezza così brillante, luminosa. Di luoghi segreti e senza orizzonti in cui sono innestate queste vite interiori in continuo tumulto. La scrittura è magistrale e niente viene forzato, garantendo così una credibilità indiscussa. Semplice ma potente, come ogni buon racconto di formazione. Un onesto e delicato ritorno di quell’innocenza positiva che non dovrebbe mai abbandonarci. Pochi i difetti di questa notevole opera prima, tanto che fu scelto come rappresentante della Mongolia agli Oscar 2023. Si sente tutto l’amore di una storia sentita. Sicuramente è consigliata la visione in sala proprio per cogliere appieno la suddetta magnificenza di ambienti e scorci che offre la Mongolia. Nel buio del cinema potreste anche stupirvi di quanto siamo piccoli rispetto al mondo che ci circonda. L’ultima luna di settembre rappresenta al meglio una natura luminosa e senza orizzonti.