L’abbaglio

Roberto Andò

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L'Abbaglio, è ambientato nel 1860, quando Giuseppe Garibaldi dà inizio insieme ai Mille all'avventura che unificherà l'Italia, partendo da Quarto. Insieme a lui vi sono giovani idealisti entusiasti, provenienti da ogni parte della penisola, e i suoi fedelissimi ufficiali, tra cui spicca un volto nuovo: il colonnello palermitano Vincenzo Giordano Orsini. Inoltre, tra i militi reclutati troviamo altri due siciliani, il contadino migrato nel Nord, Domenico Tricò, e l'illusionista Rosario Spitale.
DATI TECNICI
Regia
Roberto Andò
Interpreti
Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Tommaso Ragno, Giulia Andò, Leonardo Maltese, Andrea Gherpelli, Daniele Gonciaruk, Vincenzo Pirrotta, Filippo Luna, Pascal Greggory, Giulia Lazzarini
Durata
131 min
Genere
Commedia
Storico
Sceneggiatura
Roberto Andò, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso
Fotografia
Maurizio Calvesi
Montaggio
Esmeralda Calabria
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
Italia
Anno
2025

Presentazione e critica

“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene, e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
Se cominciamo così la nostra recensione de L’Abbaglio, citando la conclusione del discorso fra il Principe di Salina e il commissario sabaudo Chevalley ne Il Gattopardo, è per due ragioni. La prima è che Roberto Andò è un grandissimo estimatore di Tomasi Di Lampedusa e del romanzo trasformato in film da Luchino Visconti. La seconda ha invece a che vedere con il protagonista de L’Abbaglio Vincenzo Giordano Orsini, che, pur essendo di aristocratica provenienza, sposa gli ideali garibaldini e rappresenta il punto di vista umano del racconto, che poi significa preoccuparsi per il proprio battaglione e tutelare ogni singolo individuo a prescindere dalla carica militare.
Il Colonnello Orsini è anche l’alter ego del regista, che, attraverso la cronaca della sua missione quasi impossibile, può parlare della Sicilia, della Questione Meridionale e del sogno di un’Italia libera e unita. In questo senso Orsini è l’anti-Gattopardo, un servitore della libertà che può dire agli aristocratici di un piccolo paese: “Siete larve di un mondo che sparirà” e nello stesso tempo si trova ad alimentare il dubbio che la rivoluzione possa cambiare la vita delle persone più semplici, quelle che abitano dentro casupole disadorne insieme alle pecore.Abbiamo parlato di libertà, e sappiamo che è un tema molto caro ad Andò, che l’ha raccontata in Viva la libertà! e ne La Stranezza. Ne L’Abbaglio la libertà finisce per essere un’utopia, un miraggio, un oggetto troppo prezioso per essere gelosamente custodito da chi ha subito secoli di dominazione straniera. Perché siamo sinceri: quando si smette di avere un padrone, bisogna assumersi delle responsabilità, giocare a carte scoperte e in particolare fuggire i compromessi. Il film – ahinoi – ci ricorda che non siamo stati bravi a gestire i compromessi. A volte li abbiamo ignorati, e siamo andati avanti pensando erroneamente che saremmo riusciti a dimenticare che l’Italia di oggi è fondata proprio su quel che accadde nel fatidico 1860.
C’è un’altra forma di libertà ne L’Abbaglio, ed è l’elemento che lega il film a La Stranezza. Si tratta di una libertà di tono e narrazione, che consiste nell’accostare al grande racconto storico, solitamente drammatico, una componente comica e immaginifica. Questo doppio registro ha il suo segreto nel terzetto dei protagonisti: Toni Servillo da una parte, Ficarra e Picone dall’altra. Alla solennità delle parole e dei gesti del primo, corrispondono la vigliaccheria, gli imbrogli e l’innata simpatia dei secondi, i cui personaggi disertano la battaglia durante il primo scontro a fuoco con l’esercito borbonico.

Al di là dell’indiscutibile bravura del trio, l’introduzione di una coppia fittizia di antieroi consente a Roberto Andò di entrare nella storia, e in particolare nel Risorgimento, attraverso una porta laterale, e quindi senza correre il pericolo di soffocare lo spettatore con la retorica legata a determinati avvenimenti e con una pomposità che spesso si traduce in noia. Per un po’ la vicenda di Orsini, Garibaldi e dei Mille si alterna alla fuga dei due soldati semplici e ai loro bizzarri incontri. Poi la storia riaccosta i due gruppi e il contadino e il baro sviluppano una nuova consapevolezza. Ne L’Abbaglio troviamo infine un terzo genere cinematografico che si incrocia con la commedia e il film storico. Si tratta del western. Da cinefilo, Andò si diverte a omaggiare John Ford, e poi la Sicilia è una terra frontiera, che si raggiunge per mare ma si attraversa a piedi e a cavallo, con una camicia rossa che, sì, è simbolo di rivoluzione nonché titolo e oggetto di un canto garibaldino, ma è anche molto simile a quella indossata da John Wayne in Sentieri Selvaggi, che poi è la cronaca di un’altra missione in segreto, ma se là c’erano i nativi americani e i cowboy, qui il regista riflette sulla sua Sicilia e, con grande lucidità e affettuosa partecipazione, individua il nemico dell’isola nell’incapacità della gente a credere nelle illusioni e nelle idee che portano al cambiamento. Anche se molti “picciotti” si unirono a Garibaldi, vedendo in lui un Che Guevara ante litteram, altri abitanti di quel sud remoto pre-Rivoluzione Francese non capirono la sua lotta. Altri ancora risposero con il cinismo, un cinismo che era antitesi e negazione della speranza. Se, insomma, Andò è d’accordo con quanti sostengono che “chi di speranza vive disperato muore”, allora il titolo del film fa chiaramente riferimento anche a una promessa che non fu mantenuta, a un sogno collettivo il cui naufragio fu suggellato dalla parola di resa di Garibaldi “obbedisco”.Concludiamo dicendo che Roberto Andò non giudica i suoi personaggi, non biasima Domenico e Rosario, che tuttavia, come lui stesso ha voluto sottolineare, rappresentano l’eterna e indefettibile forza dell’Italia, nonché la dimostrazione di come il nostro paese si tenga in piedi anche quando appare mediocre se non in declino. È un film bellissimo L’Abbaglio, profondo, complesso e mai uguale a se stesso. È come la cipolla di Peer Gynt di Ibsen o come una matrioska che contiene decine di bambole: quella più al centro è proprio quest’ultima riflessione, che fa di noi un popolo simpatico ma spesso indolente, che, oggi più che mai, sembra aver perso vitalità e soprattutto la spinta a combattere le battaglie più importanti per la sua sopravvivenza.

Cominsoong

Ci sono storie che ti vengono incontro, come questa. Durante la lavorazione di quel film, per scherzo, dicevo che avremmo potuto fare una trilogia. Poi mi è venuto incontro il ricordo di un retroscena della vicenda dei Mille che mi è sembrato si potesse incarnare solo attraverso questi attori. Una vicenda che ci ha permesso di raccontare un momento di cambiamento come il nostro Risorgimento, quando tutto potrebbe accadere, volgere al meglio o al peggio. Nel quale si incrociano illusioni e disillusioni. L’anno poi è il 1860, quello in cui si svolge la vicenda del Gattopardo, ma Orsini è un po’ un anti-gattopardo. È un aristocratico democratico e mazziniano che nel film porta un dubbio, chiedendosi se sarà una vera rivoluzione quella che sta sostenendo. E se il popolo ne trarrà davvero beneficio. Un momento storico chiave, ma soprattutto un episodio spesso raccontato in maniera superficiale. Qui a tratti sembra lo sbarco in Normandia…
Un episodio che forse i libri di scuola raccontano in un modo un po’ soffocato dalla retorica, che abbiamo voluto rendere vivo proiettandolo nel nostro presente. Conosciamo l’entusiasmo dei picciotti e dei contadini: vedevano Garibaldi come un altro Gesù Cristo. Quanto allo sbarco, effettivamente quando i Mille arrivarono a Marsala, furono cannoneggiati da due navi borboniche e una inglese, ma non morì nessuno. Abbiamo fatto studi scrupolosissimi e avevamo un esperto che ci mostrava addirittura i resoconti militari. Poi, ovviamente, c’è sempre uno spazio importante di immaginazione, di tradimento che serve a rendere più vero del vero quello che stai raccontando. L’essere io palermitano come Ficarra e Picone ci ha consentito di parlare una lingua che è anche emotiva, difficile da restituire. Certe volte, sul set, ci intendevamo con un gesto che però è proprio da palermitano. E poi il fatto di poter lavorare con due comici per me è stata un’occasione straordinaria, piano mi sono reso conto che mi appartiene questo raccontare la coesistenza di dramma e di commedia. Borges, che è stato un grandissimo scrittore, sostiene che nei momenti in cui ci sono nell’aria dei cambiamenti, la gente sperimenta questa coesistenza. In più, devo dire che considero questo il mio film western. Anche per questa Sicilia che è una terra di frontiera.
Gli stereotipi nascondo verità. E anche certi caratteri: il Sud era ed è vittima della sua meridionalità?
Si. Vittima della sua incapacità di credere alle illusioni, alle idee che muovono il mondo. Lo diceva Falcone: il nemico della Sicilia è non credere fino in fondo nelle idee che possono veramente portare il cambiamento. Un po’ lo dice anche Orsini a Ragusin: l’illusione è importante, se non avessimo le nostre illusioni noi non saremmo nulla. Nello stesso tempo, però, la Sicilia è stata anche all’avanguardia. La lotta alla mafia è cominciata in Sicilia. Che è un luogo di contraddizioni, non a caso Garibaldi affida a Orsini un’impresa disperata. Io mi proietto molto nello sguardo di Orsini: mi piace portare il dubbio, come fa lui, che sposa il punto di vista che bisognerebbe avere quando si affrontano le grandi questioni. Come oggi, pensando a Gaza e alle altre guerre…

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