Jonathan Glazer
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
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Classificazione
Attività
Presentazione e critica
Rudolf Höss e famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città, tra gioie e problemi quotidiani: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro o combinano qualche marachella. C’è un dettaglio però. Accanto a loro, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore.
A dieci anni di distanza da Under the Skin, acclamato universalmente come una delle opere che ha meglio colto le inquietudini della contemporaneità, Jonathan Glazer si ripresenta con la trasposizione di un romanzo di Martin Amis. Siamo di fronte ad un film ambizioso e collocato in un’epoca storica tristemente nota, quella degli anni ’40 e della messa in atto della Soluzione Finale da parte dei nazisti. Ma è chiaro fin da subito come non sia la ricostruzione storica a interessare il regista, bensì la messa in scena di una situazione paradossale, così estrema da trasformarsi in un laboratorio di analisi della banalità del male e della separazione tra percezione soggettiva e realtà oggettiva.
Introdotto e chiuso da alcuni minuti di solo audio – una composizione di Mica Levi che sembra rievocare il suono di urla di dolore umane – il film di Glazer sceglie di introdurci alla vita di una famiglia rivelando gradualmente il contesto generale. Con un astuto gioco di campi e controcampi e una meticolosa osservazione del profilmico, in cui ogni dettaglio dell’inquadratura assume importanza, cominciamo a intravedere cosa ci sia al di là del muro, e quindi ad associarlo alle immagini note di una delle pagine più tragiche della storia dell’umanità. Svelato il mistero, tutto assume un nuovo significato e ogni situazione quotidiana sembra una versione distorta di quanto avviene al di là del muro: non saremo più in grado, come è giusto che sia, di interpretare con il medesimo metro di giudizio quanto avviene alla famiglia Höss. Eppure, superato lo choc della scoperta, a emergere con vigore è il ruolo simbolico della rappresentazione messa in atto da Glazer. Una volta che tra spettatore e personaggi si è creato un distacco siderale, ecco che la sceneggiatura li riavvicina, insinuando il dubbio che sia proprio la normalità di alcuni piccoli gesti e dialoghi il monito nascosto di La zona d’interesse. I discorsi sulla carriera professionale di Rudolf, il ménage famigliare o il contrasto tra la personificazione di animali e piante a scapito dell’oggettivizzazione delle vittime di Auschwitz, la costante sensazione di vivere in una bolla, nella negazione di quel che avviene al di fuori, riproduce comportamenti e vizi della nostra contemporaneità borghese.
Tendenze sempre più diffuse nella società del terzo millennio, che pongono inquietanti dilemmi etici su quale sia il possibile approdo di una graduale disaffezione dal nostro lato più umano e istintuale. Di Auschwitz ascoltiamo solo i rumori, spari e grida di dolore, ma non vediamo nulla di quel che avviene all’interno. Anche noi spettatori, complici e colpevoli, assisteremo alla rivelazione della verità – periodicamente negata e ridiscussa – solo a cose fatte, in un epilogo che apre al surreale e che dona l’esatta chiave di lettura sul film.
Ancora una volta straordinaria Sandra Hüller nel ruolo di Hedwig, moglie di Rudolf, così affezionata alla propria dimora da lottare strenuamente perché il marito mantenga la propria posizione professionale. Ma è la coralità di cast nel suo complesso, unita alla direzione di Glazer e alle musiche di Levi, a rendere La zona d’interesse un’opera di cui si parlerà a lungo.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, La Zona d’interesse è la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive una quotidianità fatta di gite in barca in una bucolica villa con piscina, di lavoro d’ufficio e domeniche in riva al fiume. Peccato che il capofamiglia sia il gerarca nazista Rudolf Höss e la deliziosa villetta con giardino in cui vive assieme a sua moglie Hedwig e i suoi figli in una surreale serenità sia situata proprio al confine con il campo di concentramento di Auschwitz. (…) La Zona d’Interesse ha rappresentato per Glazer un progetto estremamente personale e sentito. Dopo lo strabiliante (e sottovalutato) Under the Skin ha dedicato due anni alla lettura approfondita del romanzo di Amis. Poi una visita ad Auschwitz per fare ricerche sul posto in cui rimase colpito dalla residenza di Höss. Grazie ad un’autorizzazione speciale ottenuta dal Museo, Glazer ha potuto accedere a fonti di prima mano da parte dei sopravvissuti all’orrore nazista nei campi e di chi, la casa della famiglia Höss, ebbe modo di frequentarla attivamente. Da qui la scelta da parte del regista di usare i veri nomi delle persone coinvolte anziché proteggerne l’anonimato dietro a un nome di fantasia, così da enfatizzarne l’autenticità. Per un ritratto dettagliato e senza filtri di un’epoca spaventosa, straniante – illogica all’occhio esterno ma tremendamente lucida nei suoi equilibri interni da regime – restituita in immagine da Glazer attraverso costruzioni rigorose e freddamente geometriche dal montaggio armonioso e morbido che raccontano di gesti semplici di vita quotidiana mentre il mondo intorno viaggia diretto verso l’Apocalisse. Un contrasto dalla forbice valoriale incalcolabile di (dis)umanità lacerata, ribaltata, ricalibrata secondo paradigmi altri che danno per scontato l’orrore, riportata in scena da Glazer in accostamenti tematici di violenza mai realmente mostrata ma solo desunta e derivata che diventano sempre più incisivi e d’impatto lungo il dispiego dell’intreccio a ritmo cadenzato. Fino all’ultimo, il più doloroso – e al contempo prodigioso – che chiude la narrazione avvolgendo il climax di sapori e suggestioni di grande cinema mitologico.
In chiusura di narrazione Glazer compie un salto tra epoche, tra il passato di un conato di vomito e il presente delle pulizie di buon mattino al Museo di Auschwitz, che in un semplice stacco di montaggio permette a La Zona d’interesse di annientare – interamente – tutti i grandiosi propositi di gloria e pace traviata degli Höss, in favore della memoria, del valore della memoria, e della lezione storica di un dolore, quello dell’immane tragedia dell’Olocausto, che proprio non possiamo (e non vogliamo) permetterci di dimenticare.
(…) Glazer (con la direttrice del casting Simone Bär) affida i due ruoli chiave a Christian Friedel (Il nastro bianco, Amour Fou) e Sandra Hüller (Vi presento Toni Erdmann, Anatomie d’une chute), che indossano con fredda naturalezza, senza le forzature, senza le caricature “dell’obbligo”, da film sul nazismo, i sintomi delle nevrosi che li accompagnano: lui apatetico, pallido e un po’ gonfio, lei, caratterizzata da un blando claudicare, come una vera signora della classe media, gestisce la casa, educa i figli, riceve visite e recupera, quando può, la “roba bella”, quella che le persone di là dal muro non torneranno mai a indossare. Quando Rudolph viene assegnato a nuova mansione, la principale preoccupazione è quella di non perdere il privilegio di vivere in quel “paradiso”, anche a costo di dover accettare compromessi, di non rinunciare a quelle gioiose adunate di famiglia in piscina; momenti di convivialità straniante che non a caso ricalcano due celebri composizioni pittoriche di Lucas Cranach: la Fontana dell’eterna giovinezza e L’età dell’oro, entrambe in assoluta continuità con le mitologie di cui il nazismo si nutrì, e la seconda è letteralmente ambientata tra le mura di un giardino fuori dal tempo. Tempo che nel film fugge in avanti, in flash-forward, e passa per un istante dall’altra parte del muro, nell’Auschwitz-attrazione contemporanea, a mostrare le operazioni per certi versi paradossali di pulizia di uno spazio che non può e non deve essere pulito. Non c’è molto altro ne La zona d’interesse, eppure c’è tutto: perlomeno c’è l’unico modo ancora possibile per raccontare il campo di sterminio, attraverso il suo controcampo e il fuori campo. La vita degli ingiusti, la normalità, se non la banalità, del male, attraverso il suo nutrirsi dei desideri di una coppia di coniugi da romanzetto di consumo. Desideri proiettati là dove una volta ci illudevamo di trovare qualcosa che assomigliasse ai nostri.