La verità secondo Maureen K.

Jean-Paul Salomé

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Essere l’esponente sindacale di spicco di una multinazionale apre le porte ai più alti livelli dell’industria e della politica. Ma quando cerchi di ostacolare gli interessi dei potenti, il contraccolpo può rivelarsi brutale, soprattutto se sei una donna in un mondo dominato dagli uomini. Questa è la vera storia di Maureen Kearney, aggredita e umiliata in casa sua. Sconvolta, Maureen viene inizialmente ascoltata e protetta. Ma le indagini si svolgono sotto pressione e nella mente degli inquirenti inizia a crescere il dubbio: da vittima, la donna si ritrova a essere la prima sospettata. Non creduta, vilipesa, trattata da bugiarda e visionaria, Maureen dovrà fare di tutto per riuscire a dimostrare la sua verità.
DATI TECNICI
Regia
Jean-Paul Salomé
Interpreti
Isabelle Huppert, Alexandra Maria Lara, Yvan Attal, Benoît Magimel, Marina Foïs, Grégory Gadebois, Pierre Deladonchamps, Geno Lechner, Gilles Cohen, François-Xavier Demaison, Yves Heck
Durata
122 min
Genere
Thriller
Sceneggiatura
Fadette Drouard, Jean-Paul Salomé
Fotografia
Julien Hirsch
Montaggio
Valérie Deseine
Distribuzione
I Wonder Pictures
Nazionalità
Francia
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

Maureen Kearney è la rappresentante sindacale di Areva, una multinazionale francese del settore nucleare, al terzo mandato. Vorrebbe rallentare, ma non fa per lei. Quando viene a sapere dell’accordo segreto che il nuovo dirigente sta stringendo con la Cina, e che minaccia direttamente il posto di lavoro di cinquantamila operai, si dimostra disposta a tutto pur di farlo uscire allo scoperto. Allora cominciano le minacce, le intimidazioni, i pedinamenti. Fino all’aggressione. Sembra che alla polizia non rimanga altro da fare che trovare il responsabile, ma nel giro di poche settimane è lei, la vittima, a diventare la principale sospettata.
Il duo Isabelle Huppert – Jean-Paul Salomé si riunisce dopo il successo sorprendente di La padrina, per raccontare una storia vera di coraggio personale e di vergogna collettiva, in cui la violenza privata e quella politica si fondono letteralmente sulla pelle di una donna, costretta dalle circostanze e dalla propria forza di carattere ad una battaglia molto più grande di lei.
Il film è il personaggio; non solo perché tutti gli altri personaggi mancano di storie che non siano funzionali a lei soltanto, ma perché la “questione” al centro del piatto è lei stessa: il suo essere donna, il suo essere fragile e il suo essere forte, dato che umanamente le due cose non si escludono a vicenda. Non c’era dunque ruolo più appetibile per la Huppert (che qualcuno dice “malata” di lavoro, come la sindacalista del film) né un’interprete più evidentemente adatta per la parte (persino troppo, vien da dire), per la capacità di proporre un femminile che non nasconde le ombre, che rifiuta di giustificare socialmente i propri modi, che non cerca di piacere per forza a nessuno.
Il regista usa l’attrice e la sua filmografia per trasformare così il film in un thriller e inaugura questa seconda parte con un’inquadratura hitchcockiana dello chignon nel quale la Kearney ha appena raccolto i capelli, un attimo prima di subire violenza. La musica di genere e la lunga dissolvenza a nero che sospende la visione dei fatti nei minuti cruciali fanno il resto: nulla è più oggettivamente vero, tutto potrebbe essere frutto della sua mente, “esaurimento”, strategia.
Salomé, però, non è Chabrol né Verhoeven; non è in grado di togliere meccanicità alla trasformazione del personaggio né di spogliare il film di un’attenzione eccessiva alla cronaca e all’aspetto processuale che anziché riempirlo rischiano di svuotarlo. Ancora una volta tocca alla Huppert farsi carico di portare il cinema nel film, con le proprie risorse, come la protagonista di questa storia è stata costretta a fare, per difendere la sua dignità, non potendo contare su nessun altro.

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Della Syndicaliste qualcuno ha detto che sembra l’Erin Brokovich francese; e in effetti la prima parte si presta al parallelo, così come anche al parallelo con un film di due anni fa sempre con Huppert, Les promesses, di Thomas Kruithof, per ritmo e voglia di impiccantire il polar con dilemmi e contraddizioni. Però nella seconda parte nella Syndicaliste si assiste piuttosto a una “correzione” dell’Elle di Verhoeven: sappiamo che lei è innocente, ma ne sospettiamo comunque la perversione e il cinismo. Tanto più che è una “vittima poco credibile”, che reprime qualsiasi emozione compresa quella del terrore e della paura. È dunque su questa dinamica di genere che il film di Jean-Paul Salomé si sofferma (e forse si perde), tenendo sempre un invidiabile e accattivante senso del ritmo.
La syndicaliste è un film di due ore che non si ferma mai, che si piega e si ripiega e agisce dialetticamente con le aspettative dello spettatore, con un occhio a Chabrol ma anche a Hitchcock, con un gusto feticistico per il ribaltamento e il coup de theatre. Sempre rimanendo splendido cinema per tutti, da grande pubblico. E per questo forse accomodante, forse troppo lungo, forse troppo interessato a far quadrare tutto; ma regie di mestiere così precise e sul pezzo come quella di Salomé sono rarissime anche nel cinema arthouse, e usate con tanta caparbietà nel cinema medio francese (il cinema medio più alto al mondo, probabilmente) restituiscono un piacere quasi afrodisiaco.

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Il film si sviluppa attorno al personaggio principale, donna fredda e volitiva, razionale e scrupolosa nel proprio lavoro di cui è appassionata. Il ritmo incalzante e la scansione temporale della vicenda trasforma il film di indagine sociale, con risvolti da nuovo cinema di impegno civile, in un thriller appassionante e serrato. Isabelle Huppert assorbe e attrae lo sguardo dello spettatore, lavorando intensamente sulla fredda consapevolezza del suo personaggio e in questa prospettiva il personaggio di Maureen Kearney è perfettamente adatto alla sua sempre viva stoffa di attrice.
Il film, inevitabilmente, non manca di diventare anche una indiretta riflessione sui ruoli femminili e quelli maschili nella gestione degli affari che riguardano il mondo del lavoro. E se la manager alleata di Maureen viene letteralmente fatta fuori perché non ci si fida delle “manager donne”, preferendo le garanzie maschili pronte ad avallare gli accordi segreti con la dismissione dei posti di lavoro, è anche vero che solo la caparbia volontà della sindacalista benché vessata e maltrattata, possa ottenere la meritata vendetta sociale riuscendo a insinuare, tra le fitte trame di un dubbio che viene fatto apparire come fondato, ogni necessario antidoto con le mosse decisive che mettano in scacco il potere, il pregiudizio e ogni diffusa e strisciante opinione secondo la quale, comunque, esista una “segreta” colpa femminile per ogni stupro subito, per ogni ingiusta e bestiale violenza che si consumi in quella zona d’ombra in cui si manifesti il segreto sapore del potere (maschile).

Sentieriselvaggi.it

Suardo di ghiaccio e fremente di indignazione («Wonder Woman non vuole togliersi il costume»), ingentilita da una fragilità trattenuta ma affiorante (sono i tocchi di classe di una star algidamente impeccabile) e da una vita familiare tutto sommato “normale” con un marito musicista e una figlia che ha attraversato le sue tribolazioni adolescenziali, Maureen Kearney fuori dal lavoro vince a poker e legge, sottolineandone le frasi, i gialli di Ian Rankin (complimenti, è uno bravo davvero) ma nella battaglia sindacale è un treno che non conosce barriere. Salomè ripercorre un fatto di cronaca politica-economica-giudiziaria affidandosi alla struttura del thriller più tradizionale, ovvero colonna sonora incalzante, il crimine da svelare sempre presente, la battaglia giudiziaria seguita con una emotività di intenti solo mascherata dalla cadenza malinconico-realista (Costa Gavras è lontano ma non tantissimo).
La suspence passa per i parcheggi sotterranei (come quasi sempre: non-luoghi in cui la violenza può annidarsi dietro i piloni alla luce dei neon disumanizzanti), per piccole coincidenze quotidiane, per le indagini di una polizia ora ambigua ora partecipe, forse collusa con il potere o forse solo adagiata sulle procedure standard, con la preoccupazione di una persona che si sente sempre più braccata e senza uscite.

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