La Terra Promessa

Nikolaj Arcel

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Nel 1755, il capitano Ludvig Kahlen, caduto in disgrazia, si propone di conquistare l'aspra e inabitabile brughiera danese con un obiettivo apparentemente impossibile: fondare una colonia in nome del re. In cambio, riceverà per sé il titolo nobiliare che ha sempre disperatamente desiderato. Ma l'unico sovrano della zona, lo spietato Frederik de Schinkel, crede con arroganza che questa terra gli appartenga.
DATI TECNICI
Regia
Nikolaj Arcel
Interpreti
Mads Mikkelsen, Gustav Lindh, Amanda Collin, Kristine Kujath Thorp, Magnus Krepper, Lise RIsom Olsen, Søren Malling, Thomas Gabrielsson, Jacob Lohmann, Felix Kramer
Durata
120 min.
Genere
Biografico
Sceneggiatura
Anders Thomas Jensen, Nikolaj Arcel
Fotografia
Rasmus Videbaek
Montaggio
Olivier Bugge Coutté
Musiche
Dan Romer
Distribuzione
Movies Inspired e Circuito Cinema Distribuzione
Nazionalità
Danimarca, Svezia, Norvegia
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

1775. Il capitano Ludvig von Kahlen, dopo aver combattuto per molti anni nell’esercito, una volta in congedo dopo la fine della guerra, decide di realizzare un progetto che sembra una pura e semplice utopia. L’idea è quella di rendere coltivabile la brulla ed arida brughiera che copre una vasta area del Paese. Gli viene concessa la possibilità solo perché non chiede finanziamenti immediati ma solo un titolo nobiliare e dei diritti di proprietà qualora l’impresa avesse buon esito. Non sa che ad attenderlo c’è un nobile latifondista privo di qualsiasi senso morale che si ritiene, senza averne alcun diritto, proprietario del terreno.
Il capitano Ludvig von Kahlen non è il frutto della fantasia della scrittrice Ida Jessen ma è realmente esistito ed ha tentato, con grande impegno e contro ogni circostanza avversa, di rendere fertile la brughiera in nome di un re, Frederik V, che non aveva mai incontrato ed avendo la stragrande maggioranza dei componenti dei consiglieri di corte scettici quando non direttamente avversi al progetto. Arcel imposta la narrazione seguendo la traccia, a volte in modo un po’ troppo pedissequo, di un glorioso genere cinematografico: il western. Abbiamo la terra da conquistare e bonificare, abbiamo i coloni più o meno recalcitranti, abbiamo la donna forte pronta ad affrontare le avversità e, soprattutto, abbiamo l’eroe e abbiamo il cattivo. Quest’ultimo è un perfido perverso e crudele da far invidia agli spaghetti western, capace di far seguire ad un’efferatezza un’altra ancor più sadica e distruttiva. In nome di un preteso diritto sostenuto da una sostanziale stupidità.
Contro di lui ovviamente abbiamo l’eroe che però, nella concezione del regista non rappresenta l’utopista pronto a sfidare chiunque pur di tentare l’impossibile. Arcel lo vede piuttosto come colui che è praticamente posseduto da un’unica idea che gli fa perdere di vista la complessità di una vita che può essere pienamente vissuta solo se se ne colgono i molteplici aspetti, talvolta anche caotici, ma degni di attenzione e partecipazione emotiva.
Per delineare un personaggio simile era necessario, se non addirittura indispensabile, un attore che desse concretezza a questa condizione psicologica e caratteriale. Un attore cioè che incarnasse quel titolo originale Bastarden che può essere letto in vari modi (dimenticando il più che banale titolo per la distribuzione internazionale “The Promised Land”).
È grazie a Mads Mikkelsen che il film può superare il limite dato dalla struttura narrativa di cui sopra e provare a cercare una sua originalità. Il suo volto intagliato nella pietra e il suo sguardo danno a Kahlen la giusta frenesia di chi è posseduto dal demone del ‘fare’, del portare a compimento, del raggiungere l’obiettivo prefissato, dell’elevarsi socialmente grazie al proprio calarsi nella natura per riemergerne come nuovo.
Sa anche però far intuire che, sotto quella scorza di durezza monomaniacale, c’è un essere umano che ha seppellito nel profondo emozioni che non ha completamente nullificato. La presenza della piccola nomade che si inserisce nella sua vita, favorisce l’emergere di questo aspetto del personaggio.

Mymovies

Cosa si è disposti a subire, pur di dare seguito alle ambizioni più recondite del nostro animo? Fin dove uno è propenso ad inoltrarsi, quando la posta in gioco in riferimento ad un obiettivo cullato (anche troppo) a lungo comporta il sacrificio di tutto ciò che per cui vale la pena (soprav)vivere – se non addirittura esistere? Queste domande, riflesse nello sguardo fosco e impermeabile dell’ambizioso protagonista, si elevano in La terra promessa a nessi tematici di tutto il racconto, a suture simboliche che cercano di legare i tormenti del mondo “interiore” (quello relativo alla sfera dei sentimenti dell’uomo) con le soglie di una realtà altrettanto burrascosa, quasi antropomorfizzata per come ci restituisce, attraverso la perturbante glacialità dei suoi spazi bucolici, i pensieri e le inquietudini di uomini che viaggiano costantemente a cavallo tra l’ossessione e la (dis)umanità. Procediamo con ordine. Ci troviamo nella Danimarca di metà Settecento: Ludvig Kahlen è un capitano dell’esercito che desidera rendere rigogliose, in nome del Re, le lande desolate dello Jutland. È da tempo infatti che il sovrano danese aspira a costruire una colonia di profughi nella contea, in modo da civilizzare un luogo rimasto fin troppo a lungo vergine della presenza umana. Ma il percorso verso la “riqualificazione” simbolica del territorio – e perciò, verso il conseguimento da parte del soldato del suo sogno/obiettivo – è ostacolato dalle mire espansionistiche del latifondista De Schinkel, un nobile che rivendica come propri i terreni su cui Ludvig sta cercando di coltivare delle patate, e che rivolge ogni sua azione alla neutralizzazione degli sforzi del suo rivale/nemesi. Al punto che in La terra promessa tutto si gioca su un confronto a distanza tra uomini soffocati da ambizioni totalizzanti e per questo motivo incompatibili. Proprio perché, sembrerebbe suggerire Arcel, la bramosia personale può esistere solo se arriva a cancellare il desiderio di affermazione dell’altro.
Il discorso che il regista danese propone sulla tossicità dell’ambizione umana nell’istante in cui si tramuta in ossessione, acquisisce spessore soprattutto per come rende personale un conflitto fondato sull’odio reciproco. Affondare la nemesi significa qui far prevalere il proprio obiettivo, e quindi confrontarsi con la natura stessa delle proprie azioni. Ma nel film Arcel si spinge anche oltre: perché in La terra promessa Ludvig può arrivare a consacrare il proprio sogno solo attraverso il suo paradossale sacrificio. E se buona parte del racconto fa sprofondare, chi si abbandona ai richiami dell’ossessione, in un buco nero in cui è obliterato ogni afflato di umanità, le innumerevoli incongruenze dell’epilogo rischiano di rinnegare tutto il percorso del protagonista, e di conseguenza il cuore tematico del film. Anche perché, a uomini come il capitano o l’insofferente latifondista, non resta che marcire nella solitudine che hanno costruito intorno alle loro rispettive – e contrarie – visioni del mondo. E non c’è in questo senso immagine più simbolica di quella di Ludvig costretto a masticare amaro i frutti del suo duro lavoro. Sommerso da un clima di deflagrante afflizione. Nonostante l’agognata “vittoria”.

Cinematografo