La storia di Souleymane

Boris Lojkine

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Premio della giuria Un Certain Regard e Un Certain Regard Award for Best Actor Premio al Festival di Cannes, 2023

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Parigi. Souleymane è un ragazzo della Guinea, migrante senza documenti, rider che pedala determinato e consegna cibo a domicilio mentre studia per superare l’esame che gli permetterà di ottenere lo status di rifugiato. 48 ore di vita, tra clienti ingrati, sfruttatori che chiedono il pizzo, contrattempi ed inseguimenti di autobus che non lo aspettano, in attesa di quell’appuntamento presso l’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) per la richiesta di asilo.
DATI TECNICI
Regia
Boris Lojkine
Interpreti
Nina Meurisse, Yaya Diallo, Abou Sangare, Keita Diallo, Mamadou Barry, Younoussa Diallo
Durata
93 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Boris Lojkine, Delphine Agut
Fotografia
Tristan Galand
Montaggio
Xavier Sirven
Distribuzione
Academy Two
Nazionalità
Francia
Anno
2024

Presentazione e critica

È nelle sale uno dei più grandi film degli ultimi anni sulle condizioni di vita delle persone migranti e richiedenti asilo. In appena novanta minuti La storia di Souleymane del regista francese Boris Lojkine – presentato quest’anno a Cannes nella sezione Un certain regard, dove ha vinto il premio della giuria e il premio per il miglior attore – ci porta nel quotidiano di un guineano a Parigi con un’empatia e un’efficacia rare, senza cadere nel voyeurismo o nel pietismo cinematografico. Come All we imagine as light – Amore a Mumbai della regista indiana Payal Kapadia, anche questa è un’opera dalla dimensione intima, ma perfettamente calata nella realtà sociale, che aiuta a capire lo stato dell’umanità o, per meglio dire, dell’essere umano nel mondo. Perché sia il film di Kapadia sia quello di Lojkine sono lavori dal respiro e dalla visione ampia, che indagano il particolare per arrivare al generale, dal microcosmo al macrocosmo. Quello di Boris Lojkine è un concentrato densissimo di microcosmo.

Ma prima di tutto è un volto, quello di Abou Sangare. Così si chiama l’attore non professionista – davvero eccezionale e che speriamo di ritrovare in futuro – che porta il film letteralmente sulle spalle, come una sorta di laica via crucis di un’umanità eternamente sospesa. Nella vita reale è un meccanico originario della Guinea. Nel film interpreta Souleymane, un fattorino anche lui originario della Guinea. Entrambi si trovano in uno stato di semi-irregolarità, in attesa di asilo. Ma dietro le apparenze è l’attesa, e quello che comporta, a essere rappresentata. Nella frenesia del movimento costante si nasconde lo stato d’animo di questa attesa, che si fa ansiogena fino a diventare lancinante, un’attesa che consuma nel profondo. Ma con quanta umanità è restituito tutto. Questa umanità è restituita in primo luogo attraverso il volto di Abou/Souleymane, di cui la regia abbonda nei primi piani. Un volto molto bello e allo stesso tempo macerato da qualcosa che lo travaglia. I momenti in cui la camera lo inquadra, insieme ad alcuni altri più intimi, sono i rari momenti lenti, per così dire, di La storia di Souleymane. L’apertura è statica, incentrata appunto sul volto di Souleymane in fila insieme ad altri. I suoni crescono lentamente, anzi all’inizio siamo quasi nel muto, ma il volto è già lì, domina lo schermo con la sua forza, poiché esprime una verità intrinseca: l’essere umano che non ha nulla, fatto salvo la sua umanità, e in attesa perenne che qualcosa di altrettanto umano capovolga tutto. Buzzati nel romanzo Il deserto dei Tartari rappresenta questa attesa incessante, infinita, di un nemico fantomatico che non arriva mai, nell’immobilità più totale. Se è vero che l’arte indaga la metafisica, allora il regista Boris Lojkine fa la stessa cosa di Buzzati, ma con un processo opposto. In termini sia formali sia narrativi sceglie cioè la velocità per rappresentare l’attesa di qualcosa che non arriva e che forse non arriverà mai, almeno nel senso sperato da Souleymane: ovvero essere accolto dalla Francia.

(…) Per far sentire la carica umana, l’umorismo, la gentilezza, le speranze, e ovviamente la tanta ansia mista a un fondo di disperazione, pervasivo ma costante, di Souleymane, così come delle tante persone della sua comunità, senza che mai affiori un filo di retorica, il regista ci immerge nelle luci e nei suoni di una Parigi invernale ma dalle atmosfere intense, avvolgenti, spesso notturne. Seguendo Souleymane che corre, sfreccia in bicicletta, e facendoci temere per lui in ogni istante, senza che mai, anche qui, la regia indugi nel sensazionalismo. La volontà di far sentire la giungla della metropoli attraverso l’incessante giungla dei suoni, dei clacson, dei motori che rombano, delle sirene, dello sferragliare dei treni della metropolitana, o anche del vociare continuo, eliminando così ogni colonna sonora musicale, è come un insieme di liane astratte che si fanno ben concrete e in cui Souleymane deve di continuo districarsi con fatica, e che elevano il film alla dimensione metafisica, al pari del cinema neorealista o di quello più recente dei fratelli Dardenne, ma con una modalità tutta sua.

Del resto, alla sua terza opera di finzione, in cui tratta di temi simili, il regista, che proviene dal documentario, per queste sequenze nelle strade parigine (lui stesso definisce il film come un “lungo inseguimento”) ha lavorato con troupe piccole, molto al di sotto di quello che è lo standard comune perfino per una squadra ridotta. In questo caso composta da cinque o sei persone, a volte addirittura tre, tutti in bici dietro ad Abou Sangare: il tecnico del suono ha dovuto inventarsi delle nuove modalità di lavoro adatte a uno spostamento veloce in bicicletta.Solo nelle sequenze statiche ambientate in ampi spazi, come il centro d’accoglienza in cui Souleymane dorme insieme ai suoi compagni, si è lavorato con troupe più grandi. Questo perché l’ambizione dichiarata dal regista di “adattare il dispositivo cinematografico alla realtà” è quella di un lavoro formale in cui le stesse procedure tecniche e i metodi di lavoro si fanno filosofia di arte come di vita. Tutto qui fa corpo con quello di Souleymane.È con questo corpo a corpo positivo che si raggiunge la dimensione intima, malgrado la città fredda e oppressiva in cui si muove il protagonista. Una dimensione intima, calda, osmotica, che però non impedisce la regia e il montaggio nervoso, tagliente, è il caso di dirlo, come quando Souleymane nella sua corsa infinita entra per un pelo nel vagone della metropolitana: sequenza magistrale in grado di far percepire fisicamente allo spettatore lo schioccare della chiusura delle porte del treno che sembrano chiudersi quasi come le lame di una ghigliottina

Internazionale

Boris Lojkine non dimentica mai di essere stato un documentarista: tutto, nei suoi lavori di fiction, ci dice che non si può prescindere dal reale, dal mondo che ci circonda e dalle persone che ci passano accanto spesso senza la dovuta attenzione. Da qui parte La storia di Souleymane, la sua terza incursione nel cinema narrativo dopo Hope e Camille, che ancora una volta si mette affianco a personaggi che sono protagonisti e testimoni di un’odissea.

 

Se il debutto seguiva il drammatico viaggio della speranza di due giovani nigeriani diretti in Europa e l’opera seconda si concentrava sulla fotoreporter Lepage, testimone delle guerre civili ignote all’occidente e uccisa nel 2014, stavolta il percorso è urbano, racchiuso in quarantotto ore piuttosto imbarazzanti e impietose per la coscienza dell’Europa. L’aderenza con la realtà è avvalorata dalla scelta del protagonista: Abou Sangare (premiato per la miglior interpretazione a Un Certain Regard a Cannes 77, dove il film ha ricevuto anche il Premio della giuria) e il personaggio titolare sono entrambi “sans papier”, migranti senza documenti. Non riveliamo il destino di Souleymane ma quello del neoattore, arrivato in Francia nel 2017, sì: la prefettura gli ha negato i documenti, adducendo un’insufficiente integrazione nel paese d’accoglienza, e solo dopo il riconoscimento a Cannes e molte insistenze del regista il giovane ha potuto depositare una nuova domanda.

 

In questo senso, nella storia di Souleymane c’è una storia collettiva, quasi un sequel ipotetico di Io capitano: ragazzo della Guinea, rider che lavora tutto il giorno con l’account di un’altra persona (lo sfruttamento è molteplice: il capitalismo che divora, l’azienda senza sensibilità per i diritti umani, il migrante con i documenti che si serve di quello senza), potrebbe essere chiunque e nessuno.

Più passano i minuti, più si accumulano ostacoli e disgrazie, più Lojkine tallona il suo povero cristo e più ci chiediamo perché Souleymane stia combattendo per sopravvivere in un mondo civilizzato ma incivile, pieno di ingratitudine e indifferenza, razzista nonostante il multiculturalismo, dove la solidarietà è un concetto perduto (i migranti legali che chiedono il pizzo) e l’ultimo residuo di umanità è appaltato a una funzionaria che non può chiudere gli occhi né di fronte alle menzogne né al cospetto della disperazione. Più neorealismo radicale che nuchismo posticcio, è cinema del reale restituito attraverso una narrazione avvincente e implacabile benché non priva di qualche schematismo. Con un finale straordinario in cui l’autobiografia irrompe senza annunci e la ricerca dell’identità si configura concretamente nella richiesta dei documenti e simbolicamente nell’intervista in cui si costruisce una verità fittizia che non è all’altezza di quella vera. Un processo che sottolinea quanto Lojkine adotti un focus individuale per dare conto di una questione più complessa. E il suo film è onesto quanto basta per evitare il rischio che hanno corso altre storie sul tema, per esempio eccedendo nel compiacimento favolistico a uso e consumo dello sguardo occidentale.

 

Cinematografo