Alejandro Jodorowsky
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Alejandro Jodorowsky è un artista completo e totale: poeta, sceneggiatore di memorabili saghe a fumetti col geniale e compianto Moebius, cineasta surrealista e underground, grande psicomago, lettore e divulgatore di Tarocchi, affabulatore appassionato e instancabile, autore del film più visionario e straordinario mai concepito da mente umana e mai, purtroppo, arrivato sullo schermo, l’ambiziosa trasposizione del romanzo di Frank Herbert a cui è stato dedicato lo splendido documentario Jodorowsky’s Dune. A 84 anni, 23 anni dopo Santa Sangre (uscito 25 anni fa), l’artista cileno è riuscito, investendo parte dei suoi soldi e con l’aiuto del produttore dello sfortunato Dune, Michel Seydoux, a tornare dietro la macchina da presa per realizzare un nuovo film, fusione di due capitoli dei suoi libri “autobiografici”, “La danza della realtà”, appunto, e “Il tesoro dell’ombra”.
Non è un Amarcord velato dai toni dolci della nostalgia questo, ma è un film ambizioso che vede lo Jodorowsky di oggi accompagnare il se stesso bambino in un momento di grande infelicità, con cui si è ormai riconciliato. La magia dell’arte è anche quella di trasfigurare la realtà e se c’è uno sguardo che è sempre stato rivolto all’anima delle cose è quello di Alejandro Jodorowsky, un intellettuale unico nel suo genere, animista e spirituale, sempre ironico e in costante ebollizione creativa.
La danza della realtà è il film in cui confluiscono tutte le esperienze dell’autore, dal misticismo ai Tarocchi, ma è anche una presa di coscienza personale del fatto che proprio tutto, comprese le inutili crudeltà e le prepotenze, si può perdonare ai propri genitori, una volta divenuti adulti e capaci di capire quali fossero i loro limiti umani.
Jaime, il padre supermacho e stoico di Alejandro, a cui Jodorowsky concede nel film un ravvedimento e una espiazione che nella realtà non ha avuto, con gli occhi della maturità viene, se non giustificato, “spiegato” nelle sue azioni, mentre la madre da lui schiavizzata, che sognava di fare la cantante lirica, per tutto il film canta da soprano i suoi tormenti e le sue gioie. Il padre, è anche una metafora del Cile, ne incarna le anime e le sofferenze e attraverso la sua vita e la sua odissea vengono rappresentati i drammi che colpiscono un popolo in perenne miseria e schiacciato da feroci dittature.
Fin dalle immagini iniziali si comprende però la felicità del regista nel tornare al paese in cui, unico immigrato, per di più ebreo e bianco, era disprezzato ed emarginato dai coetanei che lo chiamavano Pinocchio per i suoi (raffinati) diversi lineamenti. Si vede la sua gioia nel trovarlo quasi identico dopo decenni e l’entusiasmo con cui lo ripopola della fauna umana della sua infanzia: i mutilati delle miniere, Teosofo (vero e proprio Matto dei Tarocchi), il gelataio, il nano che pubblicizza il negozio di biancheria del padre. Non ci sono ombre, in questa visione, la fotografia è nitida, luminosa, coloratissima, perché questo è lo sguardo di un bambino coccolato dalla madre e bistrattato dal padre, un bambino infelice ma curioso e avventuroso, che accetta il mondo come lo vede perché non può fare altro ma che da grande, con la sua arte, contribuirà a cambiarlo.
Se l’essere umano adulto viene creato dalle esperienze dell’infanzia, anche il dolore ha una sua funzione. Jodorowsky lo ha accettato e guarda oltre. Non a caso lui nel film è il presente che motiva il bambino del passato e l’ultimo sguardo è rivolto avanti, verso il futuro. Quel futuro che i Tarocchi non possono prevedere ma sanno orientare, perché è comprendendo da dove veniamo che possiamo cambiare il nostro presente e dunque quel che seguirà. Il padre è interpretato con straordinaria bravura, in una performance molto fisica che passa dalla violenza fatta a quella subita, fino ad arrivare alla commovente redenzione, dal figlio di Jodorowsky, Brontis, attore bambino a 7 anni in El Topo, previsto interprete di Dune a 12 e a 27 protagonista di Santa Sangre. Nel piccolo ruolo dell’anarchico si vede anche il figlio più giovane, Adan, compositore delle splendide musiche. E in questa danza della realtà, arcana, atroce, divertente e illuminante, sensorialmente coinvolgente, ci ritroviamo nostro malgrado a danzare anche noi. Non importa capire tutti i simboli o le visioni che questo grande sciamano evoca, quanto ricordare che il cinema non è soltanto il bombardamento di blockbuster svuotapensieri a cui siamo ormai tutti abituati. Come accadeva spesso negli anni Settanta e sempre più di rado adesso, c’è – ci dovrebbe essere sempre – anche un cinema che parla all’anima, allarga gli orizzonti e resta a lungo negli occhi e nel cuore di chi lo vede.
Figlio di emigranti ebrei ucraini esiliati in Cile, Jodorowsky reimmagina la propria infanzia, conservando la verità dei personaggi ma trasponendo gli eventi in un universo poetico. In questa biografia immaginaria, Alejandrito cresce nella merceria “Ukrania” del padre, ateo e severissimo, che lo costringe a prove di resistenza fisica e coraggio eroico, mentre la madre, le cui parole escono sotto forma di canto, rappresenta un porto sicuro e sentimentale. Ma è proprio il padre, Jaime, il vero protagonista di questo poema epico che lo vede passare dallo stalinismo convinto alla fascinazione per il dittatore don Carlos Ibañez, che si era ripromesso di uccidere, fino alla redenzione e alla riscoperta di sé.
C’è veramente tanto di tutto in questo racconto: ci sono l’Odissea di Omero, l’Amarcord di Fellini, il Vangelo (la parabola di Jaime lo vedrà prima storpio poi falegname poi martire), ci sono estratti dai libri dell’autore stesso e c’è la psicomagia da lui teorizzata (anche se qui mai nominata), affidata alla figura della madre, che guarisce il marito dalla peste e dall’infermità e il figlio dalla paura dell’oscurità. Il racconto è lungo, dunque, ma straordinariamente coerente nella resa visiva, nonostante le continue invenzioni sceniche e l’avvicendarsi di costumi fantasiosi e situazioni spettacolari (come la mostra canina o la morìa di pesci sulla battigia).
Il ritorno del regista dopo ventitrè anni di lontananza dal cinema avviene dunque nel nome del suo spirito migliore e più apprezzato, quello surrealista o, in questo caso, soprattutto simbolista, e ha tutta l’aria di un gesto psicomagico esso stesso, dall’impatto emotivo comprovato. Si ride e ci si commuove, in un film in cui la madre crede che suo figlio sia una reincarnazione di suo padre e intanto Jodorowsky stesso adopera il talento istrionico di suo figlio Brontis per fargli interpretare suo padre, a dimostrazione di una complementarietà senza contraddizioni tra esperienza artistica e esperienza di vita (come del resto ribadisce la presenza in scena del regista demiurgo, presenza comunque discreta).
Non mancano, evidentemente, le esagerazioni e gli eccessi, specie nel capitolo cristologico, o nell’evocazione del circo ma fanno parte del pacchetto e sono onorevolmente bilanciati dalla presenza di sequenze di rara bellezza (il bambino nero di lucido da scarpe) e intensità narrativa (il piccolo lucidascarpe che annega a causa della suola nuova e liscia). Jodoroswky si conferma dunque un regista che crede ancora, potentemente, nell’immagine e nella costruzione dell’inquadratura, senza però rinunciare ad una narrazione altrettanto ricca ed evocativa.
La danza della realtà è un film di ricostruzione autobiografica, in cui Alejandro Jodorowsky è autore di sé stesso, poiché manipola ricordi, personaggi e accadimenti in virtù di una narrazione che sembra il più vicina possibile al misticismo, ad una divinità metafisica, ma senza mai rinnegare la forte dose di blasfemia e sadismo, cosa che ha del tutto compromesso e quantomeno confermato che ciò che è e ciò che sarà è sempre stato dentro di lui. Il regista non è noto solo per le sue pieces splendidamente anarchiche ma lo era già per le sue performance-art, le sue teorie sulla psicomagia e della lettura dei tarocchi, oltre ovviamente ad essere uno straordinario scrittore.
La cinepresa è occlusa, sembra celare e chiarificare in un ballo incalzante le due anime che imperversano durante la proiezione, poiché la natura autobiografica del film è tangibile ma non perfettamente fedele, distaccandosene proprio per le pillole e gli sbalzi simbolico metafisici che il regista è geniale nello sminuzzare apertamente. Il suo cinema è sempre stato un po’ declassato, per appartenenza alla periferia, al sottosuolo di genere. Uno psicologo, uno psicoterapeuta o anche solo un appassionato della mente e i suoi cocci in decadenza trova pane per i suoi denti guardando il film. In primis per il rapporto dell’autore con i genitori, fortemente in opposizione ma mai conclusosi con complessi edipico-elettra o almeno mai sfociati realmente, un uso dell’immagine come se fossimo in un odierno Paese di Cuccagna, mistificato, sorprendente e immutabile falciato dalle ideologie del padre e della lirica comportamentale della madre, che parla cantando un’opera infinita, un sogno di vita che la tiene sì con i piedi per terra a ricordare quello che non può fare per lavoro, cioè cantare, ma che continuerà a fare nonostante l’imperativo della sua esistenza.
Il cinema, la sua stessa esistenza tocca qui vette altissime, prima di tutto per simbiosi e trasparenze sceniche che in modo vorticoso e quasi indifferente richiamano Fellini soprattutto per una sequenza splendida in cui dei ragazzini in riva al mare si masturbano impugnando dei falli legnosi, o le scenografie circensi, le prostitute, le donne formose quasi con un eccesso di abbondanza, i mutilati, uno stormo di gabbiani infervorati e un gruppo di esseri in una sorta di pellegrinaggio per le pampas. Il regista interviene direttamente nella pellicola e sussurra nell’orecchio alla sua immagine un po’ rivista e ricostruita da bambino, mezzo attraverso il quale rievoca forse le sue speranze di quei giorni in cui prevedeva che tutto il marcio, gli obblighi e le sofferenze avrebbero in un certo senso trovato una pace, una connessione, avrebbero forse portato a qualcosa: a lui, oggi. Questo è il senso del suo dolore passato.
Altro languido rifacimento simbolico ad interpretare la figura paterna è nientemeno che suo figlio, Jaime Jodorowsky, il nipote che veste i panni del nonno è una scelta che farebbe drizzare i peli a molti studiosi dell’ambito psichico ma si sa lui con queste cose ci va a nozze, ci balla il valzer, o il tango per rimanere in tema. Il passato, nel film, vive di una pluralità che da un lato ha il gusto dell’interiorità, dall’altro della cronologia come struttura narrativa imperante. Siamo nel 1929 è nella cittadella di Tocopilla, un bambino ebreo di origine ucraina, dai fluenti boccoli d’oro, vive i suoi giorni tra le efferatezze di un padre che desidera un figlio deciso, anaffettivo, blasfemo, educato al dolore e dall’altra è soggiogato dall’inerzia della figura materna, incastrata nell’impossibilità di autodeterminarsi come donna usando lui come mezzo di rivalsa ad una vita passata deteriore e immobile.
La pluralità sta proprio nelle voci in dissesto che si increspano nella narrazione, i suoi giorni con la famiglia degenerano a causa del padre che abbraccia la causa politica e progetta di dover uccidere il colonnello Ibáñez, presidente del Cile. Ad un certo punto del film si cambia rotta e punto di vista mostrando una redenzione che ha quasi il sapore della tregua, con questo distaccamento dalla figura paterna che vaga spaesato e inorridito di sé per l’inadempienza all’omicidio di stato, vagando per le terre cilene in una sorta di viaggio punizione in cui toccherà picchi cattolici, facendosi affiancare da un falegname di periferia, frequentando cori di strada dai profondi sotto-testi clericali, tornando a casa abbracciato dalla sua Penelope che tanto lo attendeva, sicuramente più e con maggior amore rispetto al giovane Jodorowsky. Il regista non teme di innalzarsi e cadere, riprende il suo mondo con tutto ciò che ha, con stracci, mani, visioni, simboli, ogni cosa che abbia una ricongiunzione con la sua montagna sacra.