Walter Salles

Oscar 2025: Premio miglior film in lingua straniera


Golden Globe - 2025: Premio migliore attrice in un film drammatico


Festival di Venezia - 2024: Premio Osella per la migliore sceneggiatura


DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Brasile, 1971. Rubens Paiva, ex deputato laburista, vive con la moglie Eunice e i cinque figli a Rio de Janeiro. Il colpo di stato del 1964 lo ha espulso dalla scena politica e ha instaurato una dittatura militare che spaventa Eunice e le fa temere per l’incolumità della figlia maggiore Veronica, simpatizzante dei movimenti studenteschi antigovernativi. Ad essere portato via da casa, un giorno in fretta e furia, da un manipolo di sconosciuti armati, è invece Rubens. Non farà mai più ritorno. Il regista Walter Salles era amico dei bambini Paiva e conosceva bene la loro casa. Abituato ai grandi spazi della sua terra, e a dimostrare il proprio talento visivo nella rappresentazione di viaggi e paesaggi, qui si muove per la maggior parte del tempo nello spazio chiuso di quella casa impressa nella memoria, e al limite della strada di fronte e della spiaggia adiacente, ma allo stesso tempo racconta un paesaggio famigliare e affettivo meravigliosamente ampio.
Il film è la storia della donna, Eunice, raccontata nel mémoire dell’unico figlio maschio, Marcelo Rubens Pavia, oggi giornalista e scrittore.
La porta sulle spalle e sul volto l’attrice Fernanda Torres, che si fa contenitore in carne e ossa della dignità della persona reale che rappresenta; ma non è da meno il cast di contorno (le figlie, la domestica). Un mondo che vive e sopravvive a una ferita privata che è anche pubblica, della nazione.
Salles si serve della sua brava inteprete principale e di tutta la squadra attoriale per evitare a tutti i costi il melodramma: donna Eunice non cede, non crolla, non urla, piuttosto sorride. Ne esce un film teso e composto, che mira alla testa più che alla pancia. Ricordare questa vicenda e mettere pubblicamente al bando certe pratiche è necessario perché non continuino a esistere. Ma Ainda estou aqui (Sono ancora qui) non è solo una storia di denuncia o di memoria: è anche un racconto di trasformazione. Giovane e agiata nella Rio della bossa nova e dell’architettura modernista, nella prima parte del film Eunice è una donna che ha tutto: soldi, amore, futuro.
La tragedia che la colpisce ribalta ogni cosa e la costringe a reinventarsi, con una nuova consapevolezza. È qui, in questo terzo atto raccontato più rapidamente e senza sottolineature, il messaggio politico del film, e la ragione per cui prosegue oltre quella che potrebbe apparire la conclusione ideale. Non è solo completezza biografica. Anche se accompagnare il personaggio in età avanzata offre al regista la possibilità di affidare il ruolo a Fernanda Montenegro, ultranovantenne, protagonista di Central do Brasil e dell’inizio del viaggio cinematografico di Salles.
La storia di una donna che aspetta, il controcampo di tanti drammi sui desaparecidos, in cui il punto di vista si sposta su chi rimase a casa. I’m still here, il titolo internazionale, sintetizza bene qual era l’interesse del brasiliano Walter Salles nell’adattare un libro di memorie del figlio della protagonista, Marcelo Rubens Paiva. (…) Walter Salles entra in una dimensione domestica a lui non troppo usuale, dopo averci abituato a storie muscolari e metropolitane, come Central do Brasil o I diari di una motocicletta, e custodisce con grande tenerezza questo nuovo peso insieme a una magnifica Fernanda Torres, capace di rendere la forza serena e il coraggio, nonostante tutto e nel corso dei decenni di questa donna, che come tante altre subirono una delle torture più subdole da parte delle dittature sudamericane. Quella sparizione dei propri cari che costrinse chi restò alla costante sofferenza nell’ignoto, privi di una tomba o un corpo, ma anche di ogni informazione sulla sorte reale, le torture subite o le ipotetiche accuse ipotizzate dai regimi.
Una parte importante fra le tante ferite del Brasile, che Salles sostiene non sia stata ancora affrontata a sufficienza. Un film di buona fattura che chiaramente poggia sulla base ideale di un lavoro politico e di presa d’atto morale di un caso emblematico dei tanti che il paese subì nel corso degli anni di dittatura militare. Per farlo ha scelto Fernanda Torres, la quale porta con sé un valore simbolico come interprete in molti film – tra cui Foreign Land di Salles stesso – che segnarono la rinascita del cinema brasiliano dopo gli anni oscuri, vincendo nel 1986 a Cannes come miglior attrice per Eu sei que vou te amar di Arnaldo Jabor. In un’apparizione di Eunice più anziana si vede anche Fernanda Montenegro, madre nella realtà di Torres, celebre protagonista di Central do Brasil di Salles.
Insomma, per un film così sentito, anche a livello di responsabilità personale e collettiva di fronte al passato del suo paese, il regista brasiliano ha voluto circondarsi di volti e sensibilità a lui abituali e vicine.
Dopo le esperienze televisive e la recente incursione hollywoodiana Walter Salles torna in patria per raccontare una storia personale e concentrarsi su uno dei momenti chiave della storia sua e del Brasile. Un rimosso che fino a ora il suo cinema non aveva mai affrontato, ma con il quale ha finito per fare i conti: la dittatura militare.
Io sono ancora qui (I’m Still Here) è tratto dal libro omonimo di Marcelo Rubens Paiva, celebre scrittore brasiliano, amico d’infanzia del regista e figlio di Rubens Paiva, ingegnere e deputato laburista, che racconta la vicenda del padre: desaparecido durante le feste natalizie del 1970 e poi torturato e ucciso brutalmente dalla polizia militare alcune settimane dopo. La moglie Eunice e i cinque figli di Rubens – fra cui appunto Marcelo, all’epoca dei fatti solo undicenne – hanno saputo la verità sulla sorte di Rubens solo trent’anni più tardi, nel 1996, quando il governo brasiliano redasse il certificato di morte dell’uomo e iniziò la ricerca e la persecuzione degli esecutori dell’omicidio (senza peraltro giungere ad alcuna condanna).
Che sia una storia personale e coinvolga il regista in prima persona lo si capisce sin da subito. Salles nella prima parte del film mostra infatti la vita famigliare idilliaca e quasi spensierata dei Paiva. Il racconto ruota tutto intorno alla splendida casa di famiglia, a due passi dalla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, e continuamente affollata di persone. Un luogo vivo, stimolante, ricco di energia e leggerezza. Un luogo che Salles ha frequentato da bambino e ricostruisce basandosi su ricordi filtrati da emozioni e memorie personali. Ma che con intelligenza sa rendere uno spazio simbolico, quasi spirituale.
Se da un lato una casa come quella – aperta a tutti, libera, piena di vita, cultura e amore – è la negazione stessa del concetto di dittatura, dall’altro la sua trasformazione va di pari passo con la distruzione del sogno e del progresso democratico del paese sudamericano. Con il graduale scivolamento verso gli inferi della vita famigliare – l’arresto di Rubens, quello di Eunice e della secondogenita Eliana (queste ultime poi rilasciate) e lo sprofondo economico e di status sia sociale sia politico conseguenti – lo spazio domestico muta infatti radicalmente. Perdendo la propria luce (il primo gesto che i miliziani fanno quando vengono ad arrestare Rubens è quello di chiudere le tende) e la propria ariosità diventando via via sempre più buio, angusto, silenzioso. E vuoto. Sarà quando avverrà l’abbandono della casa – con il trasferimento di Eunice e dei figli a San Paolo e la trasformazione dell’abitazione in un ristorante – a essere definitivamente sancita la fine di ogni speranza. Per il ritorno a casa di Rubens certo, ma anche per il proseguimento di un sogno, un’illusione di vita spensierata, innocente. Sia per i giovani componenti della famiglia Paiva, sia per un paese che all’improvviso si stava rendendo conto di essere solo all’inizio di una storia terribile e sanguinosa destinata a durare a lungo.
Come lunga e tortuosa è la strada che Salles descrive per la fuoriuscita dal trauma della dittatura, da quel sogno di progresso, democrazia e maturazione culturale che il Brasile del secondo dopoguerra ha visto interrompersi bruscamente e troppo in fretta. Il racconto procede infatti per blocchi temporali, dal 1971 si passa al 1996 e poi al 2014, tappe di un percorso – lento, lentissimo – di superamento e allo stesso tempo comprensione del passato di cui Eunice Paiva diventa l’incarnazione più esplicita. La donna, che per tutta la vita ha combattuto sia per dare un futuro ai propri figli – laureandosi a 48 anni e diventando un’apprezzata docente universitaria e portavoce delle istanze delle popolazioni native dell’Amazzonia – sia perché fosse resa giustizia al marito, incarna non solo la tenacia, ma anche la necessità di un popolo-nazione intero di dover fare i conti con la propria storia. A qualunque prezzo e senza scenderci a patti con quella storia. E la vicenda di Eunice, su cui il film insiste, anche in maniera didascalica nella seconda parte, è in effetti una lezione per tutti. Ma soprattutto lo è per quei paesi – compreso il nostro – che la dittatura l’hanno conosciuta da vicino e, in un modo o nell’altro, continuano a portarsela addosso.