Io, noi e Gaber

Riccardo Milani

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A vent’anni dalla sua scomparsa, Giorgio Gaber lascia un’eredità fondamentale per la cultura del Paese. Girato tra Milano e Viareggio, le due città della sua vita, questo documentario - omaggio racconta la storia privata e artistica dell’autore di canzoni e spettacoli teatrali indimenticabili. Attraverso interviste e materiali di repertorio, ascoltiamo le parole della famiglia e riviviamo insieme a chi l’ha conosciuto, il suo grande genio: artisti come Enzo Jannacci, Celentano, Maria Monti, che hanno cantato con lui, e altri come Jovanotti o Claudio Bisio che ne ricordano le opere.
DATI TECNICI
Regia
Riccardo Milani
Interpreti
Claudio Bisio, Francesco Centorame, Ombretta Colli, Ivano Fossati, Ricky Gianco, Paolo Jannacci, Jovanotti, Vincenzo Mollica, Gianni Morandi, Dalia Gaberscik
Durata
135 min.
Genere
Documentario
Sceneggiatura
Riccardo Milani
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Italia
Anno
2023

Presentazione e critica

La prima vita di Giorgio Gaber è indissolubilmente legata a Milano, anzi ad alcuni quartieri di Milano. Sì, perché negli anni Sessanta la città si viveva a seconda dei quartieri in cui si era. E così Gaber parlava di quei quartieri: Porta Romana, il Giambellino (quello de La ballata del Cerutti), le osterie dove bere Trani a gogò (il vino di bassa qualità che arriva dalla puglia, appunto da Trani). Era capace di scrivere canzoni ironiche, leggere ma intense. Ma anche canzoni romantiche come Non arrossire, con quel verso “non aver paura di darmi un bacio” che in tanti abbiamo sempre pensato ma solo lui ha scritto, una delle più belle canzoni d’amore italiane. In coppia con Enzo Jannacci, poi, dava vita a dei numeri che erano allo stesso tempo canzoni e sketch.

A 23 anni Giorgio Gaber è già una star della tv. È il presentatore e il mattatore di uno show in prima serata, il Canzoniere minimo. È in grado, insieme a Caterina Caselli, di lanciare due talenti sconosciuti come Francesco Guccini e “Francesco” Battiato, poi diventato Franco. Ma sa già che “la tivù è violenta sia per chi la fa che per chi l’ascolta”. Queste parole dette negli anni Sessanta e ascoltate oggi danno i brividi. E vedendo il documentario Io, noi e Gaber vi troverete spessissimo a notare quanto alcune sue frasi, pensieri canzoni siano attualissime oggi, e come Gaber abbia visto più volte nel futuro. Fatto sta che per lui la televisione era un mezzo e non un fine. E, una volta capito che non era il mezzo giusto per lui, la lasciò.
Fu grazie a Mina, che lo volle in tournee per due anni ad aprire i suoi concerti, che iniziò a scoprire il teatro. E fu così che iniziò la seconda vita di Giorgio Gaber. Nasce il personaggio del Signor G. e una nuova forma di spettacolo, il teatro-canzone. Gaber qui si trova a suo agio, nascono slogan importanti come “non c’è niente di più volgare delle idee”, e “non sappiamo se piangere o ridere o battere le mani”, una canzone che, ascoltata oggi, sembra proprio raccontare i nostri tempi, il famoso “la libertà è partecipazione”. In quelle esibizioni a teatro, Gaber non era solo un cantante: il suo era un uso del corpo totale, un prendersi carico della parola con tutto il corpo e far arrivare il significato della canzone nel modo più potente possibile. Finiva i suoi concerti stremato, sudatissimo. E li chiudeva con un urlo, prima di cercare in quinta la chitarra per dei bis che erano molto rock.

Ma l’importanza di Giorgio Gaber viene fuori tutta quando con le sue canzoni comincia a scrutare il periodo complesso e doloroso che stava vivendo l’Italia negli anni Settanta, tra le stragi e il terrorismo. E un movimento, quello della sinistra del Sessantotto, che stava andando verso la massificazione, con una generazione che stava perdendo la sua genuinità. Così Gaber canta canzoni ironiche che sono delle vere e proprie stilettate, come Polli di allevamento e Quando è moda è moda. Canzoni che avevano una capacità critica, che facevano ragionare, che creavano consapevolezza. Ma che furono anche contestate, in quella stagione folle dell’Italia in cui Mogol e Battisti venivano additati come fascisti perché non scrivevano canzoni di protesta e De Gregori attaccato perché era troppo ricco.
Queste canzoni di Gaber sono legate a un’era, ma ascoltate ancora oggi non perdono mai di senso. Giorgio Gaber aveva la capacità di vedere prima le cose, senza farsi influenzare dalle ideologie. È da brividi il momento in cui, interpellato sulla caduta del Muro di Berlino disse lucidamente che le ideologie non erano sconfitte, ma ce n’era una che aveva vinto, quella del mercato. Ed è ancora prima della caduta del Muro che scrisse una delle canzoni più famose, Destra-sinistra (nata da una lista uscita sulla rivista Dire Fare Baciare di Gino e Michele), che negli anni seguenti, quelli della polarizzazione politica, avrebbe acquisito ancora più senso.

Con Io, noi e Gaber Riccardo Milani racconta Giorgio Gaber con affetto, circondandosi dei suoi amici e di chi è diventato fan dell’artista. Ascoltiamo così Gianni Morandi, Ricky Gianco, Mogol, Gino e Michele, Jovanotti, Claudio Bisio, Fabio Fazio, Vincenzo Mollica, Michele Serra, Mario Capanna, Ivano Fossati e tanti altri. C’è la figlia, Dalia Gaberscik, e anche il figlio di Enzo Jannacci. Tutti con il loro aneddoto, con un ricordo affettuoso, ma anche con notazioni puntuali in grado di cogliere le caratteristiche peculiari di un artista unico. Accanto alle testimonianze, un preziosissimo e ampio materiale di repertorio. Il film si chiude riunendo insieme tutte le persone che hanno amato Gaber in un teatro, il Teatro Lirico Giorgio Gaber. Tutti sono seduti in platea insieme ad assistere a un suo show, come se lo stessero vedendo dal vivo. La canzone che ascoltiamo insieme a loro è C’è solo la strada. Ed è un’altra canzone che, ancora una volta, sembra acquistare un senso nuovo, attuale. “Perché il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo. Bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo”.

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I suoi cavalli di battaglia, le apparizioni, lo svilupparsi della sua carriera e la manifestazione ed evoluzione della parte più cupa e politica si intrecciano con i diversi interventi degli ospiti – a tratti attori di vere e proprie interpretazioni anche loro, o dispensatori di interessanti riflessioni – ai quali vengono affidate facce differenti del prisma che era Gaber. Da Pierluigi Bersani a Sandro Luporini, da Fabio Fazio a Mario Capanna, da Jovanotti a Gino e Michele con le piacevoli sorprese di Francesco Centorame e Paolo Jannacci, con loro il documentario spazia dagli aspetti più popolari e televisivi alle performance teatrali e innovative fino al lato creativo e analitico di una figura della quale si sente ancora la mancanza, come anche per l’altro grande assente citato, Pier Paolo Pasolini.
Sfruttati alla bisogna, ripresi a distanza, inseriti in contesti più o meno consueti (o spiazzanti, come il circolo da dove parla Michele Serra), la grandezza e l’affollamento di “spalle” è uno dei vezzi che si concede Milani nella costruzione di un film allo stesso tempo rigoroso e irrispettoso (soprattutto quando si fa beffe della cronologia e gioca a sovrapporre immagini e suoni). Un film ampiamente – e inevitabilmente, vista la mole del materiale disponibile – compilativo, ma emozionante e trascinante, che vive della maestosità del soggetto trattato. Che qui emerge potente, e con una forza tale da raggiungere sicuramente tanto i nostalgici quanto il pubblico più giovane e contemporaneo.
Non è mai tardi per (ri)scoprire Gaber: giullare con la capacità di far pensare il pubblico più attento, intellettuale indipendente pronto a rinunciare ai riflettori per sfidare i suoi fan più “polli” a una presa di coscienza non facile, uomo disilluso, tra il nostalgico e il pessimista, ma non solo. Mai, anche quando da solo pensò di esser rimasto. Un artista che ancora oggi fa discutere e offre spunti di riflessione di grande attualità, come (nel)le sue canzoni, che ancora oggi chi pensa di “poter essere vivo e felice solo se lo sono anche gli altri” interpreta alla ricerca di un senso, della speranza che nel documentario viene suggerita, in controtendenza al comune giudizio sull’ultima fase e sul suo cosiddetto testamento, anche ricordando che “non è mai finita “.

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