Anna Novion
César 2024 - Premio migliore attrice emergente a Ella Rumpf
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
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Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Il teorema di Margherita comincia con un’intervista. Una studentessa pone delle domande a Margherita, dottoranda alle prese con la sua tesi di matematica. “Indossi delle pantofole perché la Scuola Normale Superiore è come fosse casa tua?”. “No, perché sono comode”, le risponde Margherita, gelida. Il grande giorno della presentazione dei primi risultati della sua ricerca si avvicina. Proprio quando sembra andare per il meglio, tutto comincia ad andare in pezzi. Il suo professore è concentrato sull’arrivo di un nuovo dottorando da Oxford e proprio questo fa saltare l’intera tesi di Margherita, notando davanti a tutti un’imprecisione che invalida la dimostrazione e di conseguenza il lavoro di tre anni. Le viene consigliato di cambiare la tesi e relatore. “È una catastrofe”, si dice Margherita. Non può subito intuire che proprio questa débâcle sarà il punto di svolta della sua vita.
Infatti, è proprio la crescita della protagonista il centro del film diretto da Anna Novion, presentato nella sezione Special Screenings dello scorso Festival di Cannes e vincitore del premio César a Ella Rumpf come miglior attrice esordiente. Il teorema di Margherita è un racconto di formazione a tutti gli effetti, che segue la fuoriuscita da un guscio che da rifugio si è trasformato in trappola. Margherita è impaludata nelle sue certezze e proprio questo evento negativo la tira fuori dal pantano e la getta nel mondo. Proprio il contatto con quest’ultimo, con tutta la sua portata emotiva e a tratti irrazionale, a cambiarla nel profondo. La deviazione dal percorso prefissato diventa un’occasione per un nuovo punto di vista sul proprio cammino, per rivalutare la propria posizione e affrontare meglio lo stesso cammino. Lasciarsi andare per ritrovarsi.
Così, Margherita acquisisce nuove sicurezze e con esse nuove libertà. Comincia a vivere Parigi insieme alla sua nuova coinquilina, una ballerina che vive di espedienti, e ad aprirsi a quel lato irrazionale della vita. “Non c’è spazio per le emozioni nella matematica”, le ripeteva spesso il suo professore, cercando di non vedere il suo stesso limite, così ossessionato dalla sua sfida contro l’ignoto. Margherita si divincola tanto dalle dinamiche di potere legate ai personaggi del professore e della madre, scegliendo infine il suo percorso. Non si può dire propriamente lo stesso de Il teorema di Margherita, la cui messa in scena e scrittura sembra non perdere mai il controllo. Non deraglia insieme alla protagonista, non intraprende nuovi percorsi senza uscire dalla zona di comfort di un seppur buono coming of age. La macchina da presa sembra un amico invisibile, una presenza simpatetica che le sta a fianco e la accompagna alla scoperta di nuove esperienze, mantenendo al contempo una certa distanza e con essa il mistero dei suoi personaggi, sorretti da ottime intepretazioni. Eppure, tutto sembra tornare, calcolato chirurgicamente per essere un racconto efficace. L’abbraccio finale nel quale si sciolgono i nodi di Margherita diventa, allora, più che una chiusura, un punto di partenza. Tanto per Margherita, quanto per il cinema di Anna Novion.
Grigorij Jakovlevič Perelman è un matematico russo. Ha risolto uno dei maggiori problemi matematici di tutti i tempi, la congettura di Poincaré (uno dei cosiddetti Sette problemi del Millennio) e successivamente ha vinto la medaglia Fields, il più alto riconoscimento che un matematico possa ricevere. Perelman però non ha mai ritirato la medaglia Fields né il premio in denaro che l’accompagna, e nemmeno quello da un milione di dollari che era stato stanziato a chi avesse risolto la congettura di Poincaré.
Ha addirittura lasciato l’università e da allora vive semi-recluso in casa, a San Pietroburgo, con la madre anziana. Le poche volte che esce di casa è abbigliato quasi come un senza tetto, non parla con nessuno e, tanto per non farsi mancare niente, si era sparsa su di lui la voce si nutrisse solo di pane, latte e formaggio.
Quali siano i motivi di Perelman per questi eccentrici comportamenti – se la delusione per alcune contestazioni avvenute quando fu reso noto che avrebbe ricevuto la Fields, o il disdegno che prova per l’associare il progredire del genio umano nella matematica al denaro – nessuno può saperlo con certezza, ma di certo nessuno ne è mai stato veramente sorpreso: da sempre è esistita ed è nota la correlazione tra genio (soprattutto scientifico) e comportamenti border line con la follia. Pensiamo, solo per restare nel mondo del cinema, al John Nash di A Beautiful Mind, o allo scacchista Bobby Fisher raccontato da tanti film o documentari. In qualche modo, anche Il teorema di Margherita si va a iscrivere in questo filone cinematografico, e ancora di più sembra proporre una versione con esiti sociali diversi della vicenda di Perelman.
Fin dall’inizio Marguerite Hoffmann – la protagonista di questo film, interpretata da una bravissima Ella Rumpf – ci viene presentata come un giovane genio della matematica che, se pure è perfettamente funzionale, vive di piccole, deliziose eccentricità – è una che si aggira per la École normale supérieure con le pantofole, non perché quell’università sia come casa sua ma perché sta più comoda: come non amarla? – e di quelle inettitudini social-relazionali che sono il segno distintivo di quelli che un tempo venivano chiamati nerd (termine che si usa anche oggi, certo, ma che oramai, complici di danni fatti dalla serie Big Bang Theory, è sovraesteso a chiunque voglia farsi vanto di consumi culturali unicamente adolescenziali, e più in generale a chiunque vada di poco sopra la soglia dell’analfabetismo funzionale).
Il punto, insomma, il problema, è che Marguerite è una che sa la matematica come pochi al mondo – e si propone di risolvere la Congettura di Goldbach, altro leviatano matematico – ma che la vita, quella, non la sa. Marguerite è fragile, emotiva, a suo modo immatura. Tanto che, dopo l’ingresso nel suo mondo di un giovane, potenziale rivale, e dopo una presentazione andata male – e dopo che il suo professore un po’ rigido e stronzo le dice che “la matematica non deve mescolarsi coi sentimenti” – Marguerite scappa, molla tutto, gli studi, il professore, la congettura.
Va da sé, è come un postulato: un film che parte da queste premesse dovrà per forza di cose far venire i nodi al pettine, il che nel nostro caso significa che Marguerite dovrà imparare la vita, per poi eventualmente rifarsi nel mondo della matematica, e che quella dicotomia un po’ spocchiosa tra matematica e sentimento verrà replicata in una lunga serie di contrapposizioni altrettanto binarie (mente e corpo, bianco e nero, uomini e donne, oriente e occidente, amore e lavoro, e, ovviamente, genio e follia) che porteranno all’illuminazione: la necessità di superarle, di arrivare a una conciliazione. In altre parole, Marguerite dovrà imparare a convivere con gli altri (un estroversa ballerina incontrata per caso di cui diventa coinquilina), a smussare i suoi spigoli, a accettare che il mondo non segue sempre e comunque le regole della logica che sembrano dominare anche il suo cuore, a scoprire il sesso e a confessarsi l’amore per quello che sembrava il suo giovane rivale, ma che si dimostrerà alleato prima e amante poi. Il tutto mentre paga affitto e bollette vincendo soldi ai tavoli di mah-jong di mezza Parigi (un lavoro normale non era stata in grado di tenerselo).
Anna Novion, regista e co-sceneggiatrice di questo film, declina al femminile una storia e una parabola tradizionalmente riservata agli uomini (parziale eccezione, Il diritto di contare), non resiste e non ci fa resistere all’innegabile fascino cinematografico insito nelle inquadrature che incorniciano un personaggio che si staglia pensoso o estatico sul panorama di una enorme lavagna nera riempita in maniera parossistica di simboli e formule che per i più sono misteriose e esoteriche, ma nascondono una bellezza e una creatività pari e forse superiore a quella di una qualunque creazione artistica. Più di ogni altra cosa, però, Novion è capace di donare spessore umano e concreto realismo alla sua giovane Marguerite, rifuggendo dalle stereotipizzazioni e dalle facilonerie tipiche del cinema americano.
Non c’è alcuna esaltazione poetica, nel Teorema di Margherita, degli abissi della follia che pure si possono intravedere in nelle ossessioni che rischiano di risucchiarla e allontanarla in maniera definitiva dalla vita, ma c’è tutta la capacità di stimolare l’emozione – e, forse, perfino la commozione – di fronte alla riscossa finale di questa giovane donna che riconquista sé stessa e la vita, che riesce nell’intento di mettere ordine non solo al caos dell’infinito, ma anche quello finitissimo dell’esistenza. Una riscossa che è tanto scientifica e accademica, quanto umana, intima, sentimentale.