Il ragazzo e l’airone

Hayao Miyazaki

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Miglior film d'animazione, Golden Globes 2024

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Siamo in piena Guerra del Pacifico e un terribile incendio in un ospedale uccide la madre di un ragazzino di dodici anni di nome Mahito. Il padre Shoichi si risposa e la famiglia decide di trasferirsi, mentre in Mahito cresce il forte desiderio di poter rivedere sua madre. Un giorno, giocando tra le rovine di una torre, il ragazzino incontra un Airone grigio che gli presta le sue piume per costruirsi delle frecce e, in seguito, trova un libro che sua madre voleva regalargli con delle annotazioni scritte da lei. Inizia così ad interrogarsi su quanto stia accadendo e sarà proprio l’Airone a mostrargli la strada per un mondo fantastico, dove la morte finisce e la vita trova un nuovo inizio…
DATI TECNICI
Regia
Hayao Miyazaki
Interpreti
Soma Santoki, Masaki Suda, Takuya Kimura, Aimyon, Kou Shibasaki, Yoshino Kimura, Shohei Hino, Jun Kunimura
Durata
125 min.
Genere
Animazione
Sceneggiatura
Hayao Miyazaki
Fotografia
Atsushi Okui
Montaggio
Rie Matsubara, Takeshi Seyama, Akane Shiraishi
Musiche
Joe Hisaishi
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Giappone
Anno
2023
Classificazione
Tutti

Presentazione e critica

In Giappone nella fine degli anni Trenta, il giovanissimo Mahito ha perso sua madre durante la guerra e ha lasciato Tokyo per la provincia rurale, in compagnia di suo padre, che sta per sposare la sorella della defunta. Esplorando i dintorni, Mahito scopre una torre misteriosa che è un portale verso un altro mondo, con più di un legame tuttavia con la realtà, compresa la sua.

Dopo Si alza il vento, che doveva essere nel 2013 il suo commiato dal cinema, Hayao Miyazaki non ha resistito molto da pensionato forzato: lo ritroviamo oggi insieme al suo Studio Ghibli, a 82 anni, forse per salutarci definitivamente con questo Il ragazzo e l’airone. Sarebbe lecito a questo punto non credergli fino in fondo, però ci sono buoni motivi adesso per riconoscere un reale sipario in questo anime, che sintetizza la gran parte delle caratteristiche del suo cinema, in particolare quelle più visionarie e immaginifiche.
Il controllo formale del film è finalizzato, come spesso è accaduto con Miyazaki, a favorire una vera abitabilità dell’esperienza cinematografica: lo spazio dell’inquadratura diventa ospitale, indugiando quanto basta sui fondali acquerellati che definiscono un mondo, ora con dettagli storicamente meticolosi (si osservino gli interni), ora con suggerimenti al limite dell’impressionismo negli esterni. Ossessiva, nel ritmo di montaggio non convenzionale che sfida il rischio di tempi morti, è l’attenzione al sonoro che dà tangibilità a queste ambientazioni: tutto l’incipit del film è praticamente narrato dai movimenti di Mahito su diverse superfici e attraverso diversi ambienti, quasi ritrovassimo nell’eco di quei passi, di quegli inciampi, di quell’acqua, di quel materasso, la nostra esplorazione fisica di questo mondo alternativo. Al decollo della fantasia, la colonna sonora di Joe Hisaishi le dà ancora una volta voce, per andare lì dove i dialoghi e i rumori del reale non possono arrivare.
Insomma, chi cerchi l’Hayao Miyazaki classico in Il ragazzo e l’airone lo troverà, con tutti i suoi sprazzi grotteschi che hanno radici fiabesche lontane (le sette governanti sono un evidente omaggio ai sette nani, icone che immediatamente confermano l’affacciarsi del fantastico nella dura esistenza di Mahito). Ma questa volta c’è qualcos’altro.

Abbiamo avuto modo spesso negli anni di notare, tramite interviste o resoconti di terzi, come Miyazaki non si sia mai risparmiato severità verso se stesso, suo figlio Goro o l’arte dell’animazione in generale, vissuta con meticolosità e rigore. Un atteggiamento perfettamente coerente con quella necessità di annunciare il proprio ritiro, azzerando ogni tipo di autoindulgenza. L’esistenza stessa di Il ragazzo e l’airone a questo punto suonerebbe come una contraddizione, perché sembra andare contro questa volontà di risolvere il proprio rapporto con l’arte e con il pubblico. In realtà, dopo aver visto il film, si tocca con mano il motivo del dietrofront: era molto più coerente affidare questa risoluzione, questo commiato, a un film, piuttosto che a interviste o agenzie di stampa. Qualcosa era rimasto in sospeso: a salutarci doveva essere una storia, che per una volta non è abitata solo dal pubblico, ma dallo stesso autore. Sì, perché è difficile non pensare che l’anziano antenato di Mahito della storia, rimasto prigioniero di questo mondo alternativo, suo demiurgo, sia a tutti gli effetti proprio Hayao: c’è qualcosa di molto intimo nel modo in cui confida la sua sempre più faticosa difficoltà con cui lo tiene in piedi, ansioso di trasmettere un’eredità… che forse è intrasmettibile.
Il ragazzo e l’airone innalza l’arte (grafica, cinematografica, letteraria) a origine di tutto, della stessa vita, in un corto circuito tra procreazione e creazione artistica, in un annullamento – seppure provvisorio – delle distanze che il tempo impone a genitori e figli, a nuove e vecchie generazioni. Un messaggio potente quello che Hayao ha detto di voler dedicare a suo nipote, ma anche una considerazione saggia. Perché l’innalzamento, con dolcezza struggente, è tutt’altro che granitico, anzi: è destinato a lasciare spazio non solo a nuovi immaginari, nuove vite e nuove creazioni, ma anche alla natura stessa che da sempre era stata fonte d’ispirazione di quell’arte, e che ora merita di riavere indietro le sue creature.
Nella complessa stratificazione di rimandi e significati di Il ragazzo e l’airone ci si può perdere, ci si può anche annoiare occasionalmente per una struttura slegata di stampo carrolliano (non è sacrilego ammetterlo), ma non si perde mai la riconoscenza per essere stimolati nella nostra curiosità. Hayao Miyazaki non è solo un autore che si prende sul serio, ma pretende che prendiamo sul serio noi stessi, nel ruolo di spettatori e spettatrici.
Ci mancherà.

Comingsoon.it

(…) Del film per parecchio tempo non si è saputo granché, complice anche una campagna di comunicazione deliberatamente sobria se non proprio “anti-pubblicitaria” che ha permesso agli spettatori giapponesi, in tempi rumorosi come questi, di entrare in sala a mente sgombra, pronti per essere stupiti. A colpire, de Il ragazzo e l’airone, sono in primo luogo le scelte artistiche, le musiche e l’animazione, quest’ultima leggermente più dinamica e “sporca” rispetto allo stile classico del regista, persino al netto delle sperimentazioni di Ponyo sulla scogliera. Personalmente ci ho visto qualcosa di Masaaki Yuasa, fermo restando che il tono del lungometraggio non è monocorde ma, anzi, pur mantenendo una forte coerenza di fondo passa da una soluzione all’altra a seconda di casi e contesto, quasi a sottolineare la natura se non multiforme, perlomeno doppia di apparato simbolico e trama. Trama che si apre con un’introduzione ambientata nella Tokyo del 1943, in piena seconda guerra mondiale, durante la quale assistiamo alla tragedia del giovane protagonista, Mahito, che non ha potuto fare nulla per evitare la morte della madre, rimasta coinvolta in un incendio. In seguito la narrazione si sposta in campagna, dove il padre del ragazzo, a un anno dal lutto, ha deciso di trasferirsi sposando la sorella della moglie defunta, Natsuko, dalla quale aspetta anche un figlio. Nonostante la sua indole obbediente e volitiva, Mahito inizialmente fa un po’ fatica ad ambientarsi nella nuova casa e ad accettare la matrigna, finendo per sfogare la propria insofferenza soprattutto a scuola. Di lì a poco, però, a causa di una ferita e seguendo un misterioso airone parlante, il giovane finisce per rispondere al proverbiale richiamo dell’eroe, accedendo a un mondo magico dove dovrà confrontarsi con i traumi del proprio recente passato, così da poter eventualmente abbracciare con maggior consapevolezza il futuro.

Se, come già accennato, Si alza il vento virava spesso verso il testamento spirituale, sollevando parallelismi tra la carriera e la tempra del protagonista, Jirō (che nella versione originale ha la voce di Hideaki Anno, ex collaboratore di Studio Ghibli nonché creatore di Neon Genesis Evangelion) e quelle del cineasta, qui Miyazaki torna a maneggiare gli elementi più esoterici della propria poetica, pur senza accantonare del tutto il pacifismo e l’elegia rivolta a modelli sociali più antichi e rurali, descrivendo la natura come vettore di una spiritualità assente nelle architetture moderne e nella tecnologia. Per certi versi, sia in termini di struttura e sia di tematiche siamo davanti a un doppio de La città incantata che pesca elementi dal folclore giapponese, dal buddismo e dallo shintoismo, ma ancora più profondamente dalla mitologia classica occidentale e dall’orfismo, in quanto il protagonista – che ha dodici anni, età liminale tra l’infanzia e l’adolescenza – nel corso del racconto è chiamato a praticare un vero e proprio rito iniziatico per poi affrontare una catabasi, una discesa nel regno dei defunti nel tentativo di ricongiungersi alla madre. Con questa chiave di lettura in tasca viene abbastanza facile razionalizzare la trama di un film caotico solo all’apparenza, ma in realtà tra i più limpidi e “dritti” del regista. Miyazaki costruisce un percorso a tappe estremamente rigoroso arrivando a prendere per mano lo spettatore, e lasciando poco tempo a eventuali intuizioni.

In effetti, a tratti la successione dei simboli mi è parsa quasi didascalica: l’airone, coerentemente con le sue rappresentazioni all’interno della mitologia giapponese, è un essere psicopompo, un traghettatore deputato ad accompagnare Mahito in un mondo altro ed evidentemente ctonio. Prima di affrontare il viaggio, come in ogni iniziazione degna di questo nome l’aspirante eroe deve prepararsi a dovere costruendosi un’arma adatta, modificando il suo aspetto e alterando la propria coscienza, in questo caso attraverso la ferita e conseguente taglio di capelli. Una volta guadagnati gli attributi necessari, Mahito può finalmente affrontare la sua prima avventura “da uomo”; un’avventura che, non a caso, mima e redime quella più prosaica del prologo dove il ragazzo, ancora impreparato, non ha potuto salvare la madre. Qui a essere dispersa è la zia/matrigna, la quale alterna atteggiamenti materni ad altri leggermente sensuali, evocando il tema del doppio tipico di questo genere di racconti (vedi Twin Peaks o certi romanzi di Haruki Murakami). Natsuko diventa a tutti gli effetti una doppelgänger della sorella, fornendo al protagonista l’occasione per elaborare lutto e sensi di colpa. Più in generale, quasi tutti gli elementi significativi che compongono la realtà di Mahito vengono rivisitati all’interno del mondo magico: vedi la domestica Kiriko o l’esperienza del fuoco; volendo tirare un po’ la corda, persino il protagonista ha un suo doppio nel fratellino in procinto di venire al mondo. L’ultima – ma non in termini di importanza – tematica sollevata dal film ha a che vedere con l’apertura: verso l’esterno e gli altri, ma anche verso il diverso; coerentemente, di nuovo, col percorso del protagonista, ché nel passato moltissimi riti di iniziazione servivano a introdurre i giovani nella vita pubblica delle rispettive società. A definire questo specifico aspetto concorrono alcune scelte narrative presenti dalla seconda metà del film in avanti, così come gli accenni a un misterioso antenato (scoperta e accettazione del proprio retaggio) e, di nuovo, negli atteggiamenti leggermente maliziosi di Natsuko, che contribuiscono ad allargare la sfera emotiva di Mahito al di là dell’amore materno. In tutto ciò, i meccanismi, i simboli o i pipponi, se volete, elencati fin’ora, non negano mai la dimensione emotiva di un film che vive e respira soprattutto attraverso i suoi personaggi, concorrendo semmai a fornire loro un tappeto dove esprimere i propri turbamenti, le ansie e le paure. Indirizzando l’attenzione dello spettatore ma senza costringerla e fornendo, in ultima analisi, due ore di pura meraviglia.

Miyazaki elabora un’opera sofisticata e allo stesso tempo accessibile, piena zeppa di simboli, esoterismo e mistero, eppure “calda”, concentrata com’è sui suoi protagonisti e sulle emozioni che provano; in definitiva, uno dei migliori Ghibli degli ultimi anni e, forse, di sempre.

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Con una prima sequenza memorabile, caratterizzata da un gigantesco incendio notturno e restituita da una perfezione formale in cui tutto intorno il calore distorce i disegni animati, il film ci introduce il protagonista della storia, Mahito, ragazzino di Tokyo che quella sera perde la madre e, l’anno dopo, si trasferisce con il padre in una gigantesca villa lontano dalla città, da generazioni tenuta di famiglia da parte materna. Ad attenderli c’è la sua “nuova” mamma, una donna molto simile, nuova compagna del padre e in dolce attesa, che sin da subito accoglie amorevolmente quel ragazzo, insieme a 7 vecchine aiutanti che non possono non far pensare ai nani di Biancaneve… Ma c’è anche qualcun altro che sembra festeggiare l’arrivo del 12enne: un airone cenerino abbastanza curioso e talmente invadente da trascinarlo in quella torre apparentemente abbandonata che in realtà nasconde un incredibile segreto.Ancora una volta il maestro nipponico 82enne riesce a far dialogare con naturalezza commovente il qui e l’altrove, gli esseri umani e quelli animali, la natura e il sogno: sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale (il padre del ragazzo dirige una fabbrica che costruisce parti di aerei, anche il papà di Miyazaki era ingegnere aeronautico…) il racconto di formazione sembra in parte ricalcare la dinamica del suo capolavoro più celebre (La città incantata) ma la riflessione verte non più sui parallelismi carrolliani del precedente (il richiamo con Alice e il paese delle meraviglie era lì abbastanza diretto), piuttosto sulla possibilità di un regno che – capiremo poi – si regge su un equilibrio a dir poco labile, abitato contestualmente dai vivi e dai morti, un luogo fantastico dove la morte finisce e dove la vita trova un nuovo inizio. Intitolato in originale come il romanzo del 1937 di Genzaburō Yoshino (E voi come vivrete?), il film ne trae spunto forse per quello che riguarda lo spirito ma se ne discosta ampiamente per quello che attiene il soggetto, e la trama: Il ragazzo e l’airone, contrappuntato come d’abitudine dalle splendide musiche di Joe Hisaishi, mantiene intatta la potenza creativa di Miyazaki (la “discesa” nell’altro mondo, l’ascesa al cielo dei “wakawara”, l’airone che poco a poco comincia ad assumere nuove forme, l’ibridazione continua e la trasformazione di senso, le stesse figure colte in differenti momenti della loro esistenza, come Kiriko e Himi) e regala momenti di straordinaria fascinazione (unitamente alla cupezza di alcuni snodi narrativi e figurativi, ah i parrocchetti!…) mai intaccati da una durata leggermente dilatata rispetto al necessario e da una complessità indiscutibile (cosa questa che con buona probabilità potrebbe fiaccare la fruizione per i più piccolini). Regalandosi e regalandoci anche un personaggio chiave, antenato del giovane protagonista, che conduce irrimediabilmente all’anziano demiurgo-disegnatore-regista che ancora tenta di mantenere questi mondi in bilico.

Bentornato maestro Miyazaki, e grazie di tutto.

Cinematografo.it