Paolo Genovese
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
In inglese ci sono tre parole che definiscono la solitudine: aloneness, loneliness e solitude. La prima allude alla solitudine fisica, la seconda alla solitudine emotiva e quindi a un senso di fallimento, di abbandono. La terza, infine, è una solitudine positiva, che coincide con l’autorealizzazione, la calma e la maturità, oltre che con un “tempo di qualità”.
I personaggi de Il primo giorno della mia vita le sperimentano tutte e tre le solitudini e, grazie a un deus ex machina dal viso stanco e gli abiti stazzonati, cercano di passare dalla seconda alla terza. Prima dell’arrivo del loro traghettatore imperfetto e appassionato di jazz, hanno tutti rinunciato a una vita balorda, che li ha privati degli affetti, delle certezze e del coraggio di manifestare i propri bisogni. E così eccoli: chi su un ponte, chi sul cornicione di un palazzo, chi in automobile con una pistola premuta sotto al mento, chi nella propria cameretta con un vassoio di ciambelle che fa schizzare la glicemia alle stelle.
Ma per Arianna, Napoleone, Emilia e Daniele, che sono frutto di una fervida immaginazione, qualcuno ha inventato un’ultima opportunità: 7 giorni in cui dovranno decidere se uccidersi davvero o tornare nell’istante che ha preceduto l’insano gesto e ripensarci. Questo qualcuno è Paolo Genovese, il regista italiano che ama raccontare le seconde possibilità e le nuove prospettive, anche a costo di oltrepassare i confini della realtà abbracciando la magia. Ben vengano quindi, ne Il primo giorno della mia vita gli angeli, l’invisibilità, l’impossibilità di mangiare e frammenti del proprio futuro proiettati in un cinema abbandonato, che è metafora delle sale ancora troppo vuote, che inevitabilmente ci ricordano che abbiamo vissuto in lockdown. E proprio il lockdown è una “circostanza” di cui non si può tenere conto quando si guarda il film, perché il sentirsi in bilico fra la vita e la morte, le strade e le piazze deserte e l’assenza di speranza sono palpabili in un racconto per immagini attraversato dalla malinconia e ancora di più dalla nostalgia, che rende la malinconia dolce e ancora più struggente. Genovese, oltretutto, ha girato durante la pandemia, lasciando che lo smarrimento dei suoi attori corrispondesse a quello dei loro personaggi, annichiliti di fronte a un destino beffardo e assurdo.
Infine c’è la pioggia, scura e insistente, fatta delle lacrime che i quattro aspiranti suicidi non hanno ancora pianto. È una pioggia, inutile dirlo, che ricorda Blade Runner, anche se lo scenario non è futuristico. Piuttosto è fosco. Siamo a Roma, ma solo chi conosce bene la città lo capirà, riconoscendo Piazza Vittorio e le strade intorno alla stazione Termini, illuminate da una fotografia a volte livida, che vira su colori blu freddi per lasciare il passo, di tanto in tanto, a una luce più calda. Paolo Genovese non giudica, non insegna, anche se il suo sguardo fa capolino nei piani d’ascolto di un ineccepibile Toni Servillo, però a un certo punto sembra aver bisogno di aria e spalanca le finestre, apre le gabbie dei suoi quattro dead man walking e lascia entrare proprio la speranza, che è una piacevole brezza, e perfino la felicità, che per Napoleone & Co., ma anche per molti di noi, altro non è che una casetta in riva al mare e una persona amica che ci cucina la pasta con le vongole.
Il Primo giorno della mia vita non è un manuale di autoaiuto sui “no che insegnano a vivere” o su “come rafforzare l’autostima”, ma, attraverso il suo angelo sgualcito che chiede “Permesso?”, ci suggerisce che, se il presente ci opprime, il futuro può avere in serbo per noi cose belle. Ma soprattutto il film intende ribadire che nessuno, ma proprio nessuno, si salva da solo.
Non fa sconti il regista di Perfetti sconosciuti e prende di petto uno dei grandi rimossi della nostra società cattolica più che laica, che identifica nel suicidio un atto di rivolta contro Dio, invece che una libera scelta, un gesto di protesta, la massima espressione del libero arbitrio. Riprende i suoi personaggi con più di una macchina da presa Genovese, dimostrando ancora una volta di essere un bravo filmmaker, e al principio predilige gli interni: l’abitacolo di una vecchia Volvo in cui l’autoradio ingoia musicassette, stanze di un hotel a due stelle dove anche i fiori sono scoloriti, qualche bar e ristorante. Siamo lontani, insomma da Immaturi, e l’impressione che si ha è quella di un cambio di passo che nasce da un’esigenza di analisi e forse autoanalisi. L’effetto è potentissimo, e siccome è di dolore che si parla, ciascun attore lavora di sottrazione, a cominciare da Margherita Buy e da Valerio Mastandrea, la prima alle prese con una donna che teme di perdere il dolore sordo di cui si nutre e che presto si trasformerà in senso di vuoto, il secondo affetto da un male di vivere, da uno spleen sempre più soffocante. E se la Emilia di Sara Serraiocco si misura con l’incapacità di fare i conti con un mondo sempre più competitivo, attraverso il piccolo Daniele (Gabriele Cristini) si fa strada il tema della genitorialità imperfetta.
Che Paolo Genovese avesse chiuso con le commedie rassicurati, era già chiaro a tutti fin dai tempi di Perfetti sconosciuti. Tuttavia era difficile immaginare una svolta così cupa come in Il primo giorno della mia vita. Il nuovo film del regista, affronta infatti di petto una serie di temi, uno più scottante e complesso dell’altro. Il primo è quello del suicidio (e abbiamo detto tutto), seguito a ruota da svariate domandone esistenziali come “cos’è la felicità?” e “Perchè vale la pena di vivere?” o anche “ci si può salvare da soli?”. Il tutto condito da una copiosa dose di male di vivere, senza (per fortuna) il cotè di melò al quale ci ha abituato gran parte del cinema italiano. La storia ruota infatti a quattro persone che, per ragioni diverse, hanno deciso di togliersi la vita. A ciascuno di loro si presenta Uomo (chiamato anche “coso”), ossia una persona non meglio identificata che chiede di dargli sette giorni di tempo. Al termine della settimana, i suicidi potranno decidere se confermare la scelta che hanno preso nell’ultimo giorno della loro esistenza (ovvero uccidersi) oppure cambiarla, optando per la prima scelta della loro nuova vita (da qui il titolo). Per chi se lo stesse chiedendo: sì, il film è ispirato all’omonimo libro di Paolo Genovese.
“Il seme di questa storia è nato dopo aver visto il documentario The bridge – il ponte dei suicidi: il regista Eric Steel piazzò una telecamera in cima al Golden Gate Bridge riprendendo tutti i suicidi consumati là sopra. Poi è andato a intervistare chi era sopravvissuto al salto nel vuoto e tutti hanno raccontato di essersi pentiti in quei 7 secondi che cadevano nel vuoto”, racconta alla presentazione stampa Paolo Genovese, “Quei sette secondi sono poi diventati i sette giorni nel mio film”. La posta in palio è chiaramente molto alta tant’è vero che lo stesso regista ammette di aver riscritto “la sceneggiatura mille volte, buttando via interi capitoli: il rischio di essere banali, superficiali o ridondanti è sempre molto alto quando si parla del senso della vita. Tuttavia misurarci con qualcosa che ci allontana dalla propria confort zone è uno stimolo necessario per lavorare bene”.(…)
(…) Sicuramente è una di quelle storie che ti costringono a riflettere (il che non è poco, di questi tempi). Usciti dalla sala avrete tra le 3mila e le 4mila domande esistenziali e ognuno si sarà commosso, per un motivo diverso o per una differente scena, nel corso della visione. Il film riesce infatti a toccare più corde, mostrando bene i vari volti del male di vivere. Il dolore viene passato sotto lo scanner della telecamera con un rigore chirurgico e autentico, meno invece la speranza. Non che questa non ci sia: anzi. Semplicemente però è un sentimento più vago. A tratti impreciso. Come se si facesse fatica a tirare, per davvero, le fila rifugiandosi in un finale che, se non può essere definito aperto, si presta sicuramente a più letture. Inoltre, in un film che ambisce a interrogarsi sul senso della vita, risulta non pervenuta tutta la dimensione trascendentale e spirituale: persino l’angelo della Morte diventa semplicemente “coso”. Il dissidio esistenziale dei protagonisti – restare o mollare – si declina interamente su un piano mortale, tra nostalgia delle gioie della vita (caffè compreso) e potenziali rimorsi per un futuro di cui potrebbero non godere mai. Peccato, perché sarebbe bastato scavare appena un po’ di più sotto la superficie…