Il mio giardino persiano

Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha

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Vedova da una trentina d'anni, la settantenne Mahin non ha mai voluto risposarsi e da quando la figlia è partita per l'estero vive sola a Teheran nella sua grande casa con giardino. Stanca della solitudine, dopo un pranzo con le amiche che l'ha spinta a cercare la compagnia di un uomo, Mahin avvicina l'anziano tassista Faramarz, ex soldato anche lui destinato a restare solo, e con gentilezza lo invita da lei per passare una serata insieme. L'incontro inaspettato si trasformerà per entrambi in qualcosa d'indimenticabile.
DATI TECNICI
Regia
Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha
Interpreti
Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mansoore Ilkhani, Soraya Orang, Homa Mottahedin, Sima Esmaeili
Durata
97 min.
Genere
Commedia
Sceneggiatura
Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha
Fotografia
Mohamad Hadadi
Montaggio
Ata Mehrad, Behtash Sanaeeha
Musiche
Henrik Nagy
Distribuzione
Academy Two
Nazionalità
Iran, Francia, Svezia
Anno
2024

Presentazione e critica

Vedova da una trentina d’anni, la settantenne Mahin non ha mai voluto risposarsi e da quando la figlia è partita per l’estero vive sola a Teheran nella sua grande casa con giardino. Stanca della solitudine, dopo un pranzo con le amiche che l’ha spinta a cercare la compagnia di un uomo, Mahin avvicina l’anziano tassista Faramarz, ex soldato anche lui destinato a restare solo, e con gentilezza lo invita da lei per passare una serata insieme. L’incontro inaspettato si trasformerà per entrambi in qualcosa d’indimenticabile.

Presentato in concorso alla Berlinale 2024, il film non fu accompagnato dai suoi due autori, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, a cui venne negato il passaporto: una chiara ritorsione del governo iraniano nei confronti del loro cinema poco allineato. Già nel loro film precedente, Ballad of a White Cow, Sanaeeha e Moghaddam (che di quel film era anche attrice protagonista), avevano del resto rappresentato il regime di Teheran come corrotto, incerto, impreparato di fronte ai propri errori, e raccontato l’esperienza quotidiana di una donna vittima di un potere indifferente. In Il mio giardino persiano (titolo internazionale My Favourite Cake, “la mia torta preferita”, di cui si comprende il senso nel finale) il versante politico è più sfumato, ma allo stesso modo la messinscena sottolinea la chimera di una libertà irraggiungibile per il popolo iraniano.

La protagonista Mahin (l’intensa Lily Farhadpour), non più giovane ma ancora viva, è tenuta al suo posto di donna sola e reticente dalle regole più o meno scritte della società islamica e piccolo borghese a cui appartiene. Lo dimostrano l’hijab che è costretta a indossare (ricordando invece i tacchi alti e le scollature del mondo pre-rivoluzione), le sbrigative conversazioni al telefono con la figlia, i dialoghi con l’amica ipocondriaca, la condiscendenza degli uomini al ristorante, la curiosità della vicina impicciona che ha sentito una voce maschile nel suo appartamento… Significativamente, la voglia di riprendere a vivere, di cercare la compagnia di un uomo e combattere la solitudine, per la donna passa attraverso la rivendicazione della sua esistenza e della sua figura nel mondo esteriore: come quando, nell’unico momento esplicitamente militante del film, si oppone all’arresto da parte della polizia morale di una ragazza rea di non indossare correttamente il velo. «Fatti sentire», dice Mahin alla giovane dopo averla salvata, «più tu accetti il loro potere, più loro ti schiacceranno».

Riconducibile in apparenza a una dimensione privata, la scelta di Mahin di invitare un uomo in casa sua e spendere con lui (il dolce Faramarz, interpretato da Esmail Mehrabi) la serata più bella delle rispettive vite, ha in realtà un contenuto chiaramente politico: Mahin e Faramarz si chiudono al mondo, nello splendido giardino della donna, e lì vivono la loro libertà fatta di vino illegale, balli e, forse, una torta alla crema, contro ogni forma d’intrusione del potere.

Le immagini confezionate dai due registi sono precise, il più delle volte fisse, altre volte invece mosse da lenti movimenti di camera; la luce è netta; i contrasti tra l’oscurità e la luce non creano il dramma ma illustrano al contrario il sottile mutamento del rapporto d’amicizia e forse d’amore fra i due protagonisti. A un certo punto, nella storia di Mahin e Faramarz, ogni cosa sembra pure avere un proprio posto nel mondo, una sua giustezza che dà senso alle cose. La sceneggiatura è del resto ricca di eco interne, di rime fra scene e parole che rimandano all’idea del passaggio e del cambiamento: dalla morte alla vita, dal passato al presente, dal dentro al fuori, dal sopra al sotto la terra. Ed è proprio lì, nel gioco di contrasti e passaggi poi bruscamente interrotto, che si gioca il destino di Mahin.

Un destino beffardo, ingiusto, anche un po’ gratuito se lo si pensa in termini meramente narrativi, ma che abbraccia in pieno la visione critica dei due registi: come a dire che in Iran, in questo Iran ottuso e forse decadente, non c’è redenzione per nessuno, nemmeno per chi prova a essere libero, felice e innamorato almeno per una sera.

 

Mymovies

De Il mio giardino persiano (My Favourite Cake) di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, restano impressi innanzitutto alcuni momenti. L’incipit, con l’inquadratura dell’ingresso della casa in cui si svolgerà la vicenda, la luce del giorno che vi entra e il giardino che si intravede all’esterno, e poi la protagonista, Mahin, che dorme nonostante sia mezzogiorno, svegliata dalla telefonata di un’amica alla quale ripete che lei, di mattina, ha bisogno di riposare perché di notte non riesce a farlo, e infine la donna al tavolo della cucina, assorta e pensierosa mentre fa colazione e fuma, prima di cominciare a svolgere le faccende quotidiane. Delle riprese sobrie, semplici, essenziali. Ma al contempo simboliche ed evocative: lo spazio, la luce, la protagonista settantenne, robusta, non bella, vedova e madre di due figli che hanno lasciato l’Iran vent’anni prima e che lei non riesce ad andare a trovare, perché per motivi di età non può ottenere il visto. E il finale, cupo, drammatico, con l’inquadratura lunga, silenziosa, della sua testa da dietro e delle spalle, sulla stoffa di uno dei vestiti che ha indossato quella notte, quelli che la figlia le porta dall’estero.

Il cuore del film è proprio quella notte, la notte in cui la protagonista, influenzata dalle amiche che la spingono a trovare un uomo dopo anni di vedovanza e di vita sempre uguale, incontra un coetaneo che le piace e lo invita a casa. Lui, Faramarz, è un tassista che ha fatto carriera militare e che a un certo punto ha lasciato l’esercito, un musicista dilettante di tar (strumento simile al liuto diffuso nella zona caucasica, ma dalla suggestiva forma a otto, richiamante l’infinito) e una persona altrettanto sola, che deve fermarsi in farmacia prima di raggiungere Mahin perché ha le sue magagne fisiche (la mano destra è piena delle schegge della guerra) ma che accoglie, come del resto la donna, ciò che la vita gli dona: un incontro, una chiacchierata fluida, gentile, che viene da sé, delle ore da passare insieme guardando l’altra/o, ascoltando l’altro/a, dandosi a una persona che si sente affine, come da tanto tempo non succedeva. E anche qui, dicevamo, i momenti: la corsa in farmacia sotto la pioggia torrenziale, mentre lei aspetta in auto; il giardino che si illumina man mano perché lui le sa aggiustare le lampadine che sono rotte da un bel pezzo, e lo fa volentieri; il giardino, appunto, che si mostra nella sua bellezza austera con i cedri rubati anni prima al parco pubblico, per ospitare la cena dei protagonisti; le battute sul vino (proibito dal regime) che Mahin ha conservato, e che offre a Faramarz mentre lui le racconta che, con degli amici, raccoglieva tanta uva nel suo cortile e lo faceva in casa… piccole trasgressioni, strategie di sopravvivenza, segni tangibili di un regime che nega qualunque cosa possa donare gioia, tanto che la felicità che i due si danno in quelle poche ore diventa qualcosa di politico, anzi di rivoluzionario.

Questo film semplice anche nello stile (totali in prevalenza, primi piani, campo – controcampo classico nell’automobile, in ogni caso ambiente e personaggi mostrati in modo pacato e fluido, con movimenti di macchina molto parchi e sempre funzionali), che mostra la magia che la vita può avere se si riesce a cogliere i momenti e a viverli, a goderli nelle piccole cose, come la torta del titolo originale, un dolce alla crema di vaniglia e al profumo d’arancio, o come la menta che la protagonista raccoglie nel suo giardino perché ha appena scoperto che lui la adora; odori, sapori, luce; questo film semplice della semplicità della vita e sostanzialmente narrativo, “umano” nella raffigurazione di persone vere, autentiche, buone, e della loro intimità; questo film semplice, si diceva, in realtà è un film politico. Maryam Moghaddam ha lavorato con Panahi in Closed Curtain (2013) e poi, con il marito Behtash Sanaeeha, ha diretto Ballad of a White Cow (2021, in concorso, come questo, al Festival di Berlino), un film che mette in discussione la pena di morte (e, in generale, la situazione dell’Iran di oggi) e che ha causato una battaglia legale durata due anni. Questo film, che di esplicitamente politico ha solo una scena, quella in cui la protagonista difende una ragazza che sta per essere arrestata per un ciuffo di capelli fuori posto, cioè fuori dall’hijab (richiamando la vicenda tragica di Mahsa Amini, anche se le riprese del film sono iniziate prima), oltre al fatto che è Mahin, quindi una donna, sia pure anziana, a invitare da lei Faramarz, in realtà è rivoluzionario, come si diceva, per il fatto di “mettere in scena” la serenità e la gioia contro tutti gli ostacoli, compreso il controllo serrato della vicina che ha il marito che lavora per il governo. I registi, infatti, non hanno ottenuto il passaporto per recarsi alla Berlinale 74, dove gli attori, Lily Farhadpour e Esmail Mehrabi, hanno tenuto comunque bene in vista la loro fotografia.

 

Nocturno