Tran Anh Hung
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Sul finire del XIX secolo in Francia Eugenie, cuoca sopraffina, e Dodin-Bouffant, famoso gastronomo, lavorano fianco a fianco da vent’anni. Il loro è un rapporto di reciproca fiducia che progressivamente si è trasformato in una relazione sentimentale. Eugenie però si ritrae dinanzi all’idea che si consolidi in un matrimonio. Lui però non ha intenzione di arrendersi e si muove, per ottenere il risultato desiderato, sul terreno che li accomuna: la cucina.
Il rapporto tra cinema e cibo è ormai di lunga data ma un film come quello diretto da Tran Anh Hung segna decisamente una svolta in quello che è diventato quasi un sottogenere. Il modello storico di riferimento è, oltre al romanzo di Marcel Rouff “The Life and the Passion of Dodin-Bouffant, Gourmet”, Jean Anthelme Brillat-Savarin che nel 1825 pubblicò “La fisiologia del gusto” mettendo un punto fermo su quanto si dovesse fare o non fare nell’ambito della gastronomia e della presentazione del cibo a tavola. Dai giusti piatti e bicchieri fino agli accostamenti di certi sapori con certi altri, ogni elemento viene codificato e motivato. Tran Ann Hung ha avuto poi, in fase di preproduzione, la collaborazione dello chef tristellato Pierre Gagnaire. Ne è nato un film che è distante anni luce da tutti i cooking game che la televisione ci propone perché il suo senso profondo non è la competizione ma la condivisione del sapere.
Fin dalle prime inquadrature, e per l’intera durata del film, vegetali, carni e tutto ciò che contribuisce alla riuscita di un piatto (ivi compreso un profluvio di pentole in rame) sono al centro dell’inquadratura e vengono portati sullo schermo grazie ad uno sguardo che è al contempo tecnicamente attento e sensorialmente partecipe. Non stupisce venire a sapere che sul set, dopo lo stop di una ripresa, gli attori continuassero a mangiare perché anche le papille gustative dello spettatore, oltre che i succhi gastrici, entrano in attività. Si assiste davvero a una sorta di partitura in cui l’armonia degli elementi, dei colori degli stessi (immaginati) sapori si manifesta in tutta la sua delicata ma al contempo potente presenza.
Su questo pentagramma sensoriale si sviluppano le note di un autunno della vita che vede due persone (una delle due preferisce l’estate mentre l’altra finisce con l’amarle tutte) comunicarsi sentimenti attraverso l’attenzione che mettono nella preparazione dei piatti. Mai, come si diceva, in competizione tra loro ma semmai con il desiderio di procurare all’altro (o ai commensali amici) un piacere particolare. Con, in più, un valore che si aggiunge e che completa il menu del film. Dodin e Eugenie hanno, come interessata collaboratrice, la piccola Pauline motivata dal desiderio di apprendere. Potrebbe diventare la futura Eugenie ma ha bisogno di qualcuno che condivida con lei non solo la passione per la cucina ma anche i segreti del mestiere. Qualcuno che sappia essere una guida che, come recita una massima zen ricca di saggezza, sia un vero maestro che “ti mostra la tua grandezza, non la sua”. Dodin Bouffant potrebbe essere quella persona?
Pentole, tegami, mani rapide che eseguono gesti precisi: la cura per il dettaglio è alla base di Il gusto delle cose (La passion de Dodin Bouffant). Il vietnamita Trần Anh Hùng, naturalizzato francese, Leone d’oro a Venezia con Cyclo ormai quasi trent’anni fa, costruisce una relazione sentimentale nella Francia di fine Ottocento con gli strumenti della cucina. Dodin (Benoît Magimel, in un ruolo degno della sua stazza) si muove tra i fornelli come un imperatore. Eugénie segue con abnegazione il suo ruolo da cuoca, forse amante, al servizio di sua maestà.
Hùng compone il suo quadro quasi eliminando la trama, mostrando una relazione come una ricetta: gesti precisi, attenzione maniacale agli ingredienti, amore universale per quel che si crea. Dodin e Eugénie sono una coppia immaginaria, il loro rapporto è scandito da una liturgia destinata a solleticare il palato di altri. Le parole sono poche, sembrano istruzioni. La trama volutamente latita. Ma c’è qualcosa di ipnotico nella preparazione di piatti sempre più complessi, di pietanze sempre più elaborate. La macchina da presa di Hùng si muove sinuosa, sicura, pronta a cogliere ogni momento, ogni increspatura. Magimel e Binoche sottolineano con economia sentimentale un rapporto costruito nel suo farsi, saldato dalla realizzazione di ogni pietanza, solcato da una solidarietà afasica ma intensa. Il gusto delle cose si srotola come un menu, alterna i momenti di cucina a quelli di degustazione, assiste alle sentenze del cuoco geniale e le contrappone al piacere dei commensali. Al centro di questa famiglia, a suo modo disfunzionale, irrompe la piccola Pauline, nipote della padrona di casa, che mostra – per la sua età – un vivo interesse e un notevole palato. Il simulacro della famiglia si fonde con quello del talento, l’iniziazione culinaria si mescola con un affetto appena accennato.
Il film usa il cibo come metafora smaccata di una forma di altruismo, di accudimento, di realizzazione personale; ma il suo incedere reiterato, il suo sguardo estatico sanno catturare un senso del cibo quasi mistico, mai legato a un piacere solamente terreno. È la perfezione che si cerca, la sintonia, l’equilibrio assoluto di un benessere sensoriale. Hùng accarezza i suoi attori immergendoli in una luce pittorica, restituisce odori e sapori attraverso un cinema tanto elegante quanto tattile, concreto. Il gusto delle cose è una variazione sul tema dell’amore romantico, colmo di tenerezza umana verso i suoi personaggi, incapaci di mostrare la loro affettività fino in fondo ma, sempre, dediti alla loro vocazione intesa come dono, come ricerca della perfezione, come misura del mondo. Parla di relazioni umane filtrate – montate come una salsa, passate e ripassate, soffritte – da uno sguardo perennemente umbratile, intriso di malinconia. Hùng firma un film labile, a tratti ondivago, ostentatamente ripetitivo, ma che sa mostrare, in maniera obliqua, una diversa e ostinata ricerca della felicità.
La cucina, la preparazione e la consumazione dei piatti (curati dallo Chef stellato Pierre Gagnaire e dallo storico Patrick Rambourg) sono al centro dell’inquadratura e vengono portati sullo schermo grazie ad uno sguardo che è al contempo tecnicamente attento e sensorialmente partecipe. La prima mezz’ora in tal senso è un valzer letteralmente coreografato da una cinepresa che volteggia sinuosa attorno ai piatti e a chi li prepara, creando un flusso cinematografico che unisce estetica, eleganza e rigore formare, caratteristiche che fanno da sempre parte della cifra stilistica di Trần Anh Hùng. All’interno di questo layout, il regista passa da un primo piano estremo a un angolo più ampio, da un momento fluido a uno di stasi, in modo assolutamente sinuoso e modo molto musicale, accompagnato da una colonna sonora composta unicamente dal profluvio del frigolare dei grassi, del sobbollire dei brodi, delle salse e dei fondi di cottura, oltre che del rumore delle foglie scosse dal vento e del cinguettare degli uccelli. Poesia allo stato puro che si tramuta oltre che in un’esperienza filmica e al contempo sensoriale irresistibile che stuzzicherà sicuramente le papille gustative di affamati e buongustai. Le leccornie che si potranno ammirare sullo schermo e divorare con gli occhi saranno però anche una tortura per lo spettatore, costretto suo malgrado a guardare ma non ad assaggiare.
L’amore tra esseri umani e per la cucina sono al centro de Il gusto delle cose, un melò a sfondo gastronomico che prima di essere un’opera cinematografica è una vera e propria esperienza sensoriale. Trần Anh Hùng torna dietro la macchina da presa per raccontare e soprattutto mostrare una danza dei sensi e dei sentimenti, magnetica nel disegno pittorico delle immagini, elegante e rigorosa nella composizione estetica-formale. Il tutto impreziosito dalle performance di Juliette Binoche e Benoît Magimel.