Philippe Garrel
Orso d'argento per la miglior regia del Festival di Berlino, 2020
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Una compagnia di marionettisti formata da nonna, padre e fratelli e sorelle continua a tenere spettacoli per il divertimento dei più piccoli. Fino a quando un giorno il padre si sente male durante uno spettacolo. Da quel momento tutto cambia.
Come accade a molto cinema francese questo è un film che non andrebbe doppiato ma proposto con i sottotitoli. Perché l’esile trama si sostiene grazie ad una lingua e a dei toni che suonano morbidi e soffusi anche nei momenti più problematici e tragici.
Philippe Garrell cercava l’occasione per poter riunire i suoi tre figli (all’epoca delle riprese di 38, 30 e 22 anni) e l’ha trovata grazie a una sceneggiatura scritta con Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann e Caroline Deruas Peano. Ma anche grazie a una storia personale che lo vede figlio e nipote di due artisti che, per un periodo della loro vita, sono stati marionettisti. Ne nasce un film che nella prima parte ci racconta un mondo che sembra andare contro corrente in quest’era digitale.
Seguiamo gli artisti dietro il palco oltre che nel quotidiano, vediamo come interagiscono ma, soprattutto, sentiamo il divertimento degli spettatori bambini a riprova che, nonostante tutto, la loro fantasia non si è ancora appiattita e sanno reagire positivamente ai meccanismi di base della comicità. Da quando però il collante del gruppo viene a mancare è come se quelle mani, abili nel far vivere delle marionette estratte da un baule in cui giacevano inanimate, non siano più in grado non solo di trovare la giusta ispirazione per gli spettacoli ma anche di toccare e farsi toccare nel modo giusto.
Tra una coppia che si sfalda dopo la nascita di un bambino e un attore che cerca la propria strada su un palcoscenico in cui non debba più nascondersi agli occhi del pubblico si viene a creare un mondo nuovo nel quale chi è meno attrezzato finisce con il perdersi. È come se Garrel padre volesse comunicarci che l’arte può salvarci dal vivere la vita preservandoci dal doverne affrontare le aporie che inevitabilmente finiscono per crearsi. Lo fa con i toni intimistici che gli sono propri e con una grande attenzione per quegli impercettibili slittamenti del cuore che possono essere intuibili solo grazie un primissimo piano che coglie un sorriso d’imbarazzo appena accennato.
In una delle prime scene de Il Grande carro Peter – che lavora nella compagnia teatrale di burattini a gestione famigliare del padre di Louis ma sogna di fare il pittore – sta camminando insieme allo stesso Louis verso l’atelier e mentre descrive le sfortune e le ristrettezze della sua vita di artista dice all’amico e collega «non tutti hanno la fortuna di avere una famiglia come la tua!». Già, la famiglia, intesa come nido, punto di riferimento, ma anche come luogo in cui germinano conflitti e i legami possono imprigionare e diventare vincoli indissolubili – nel bene e nel male.
È chiaro sin dalle prime scene che Il Grande carro è un film intriso di autobiografismo. Garrel mette in scena una famiglia di artisti fuori tempo, che porta ostinatamente in giro un’arte antica, dimenticata e fuori moda come quella dei burattini. Ma allo stesso tempo parla della propria di famiglia e insieme quindi della propria vita e della propria arte. E lo fa raccontando un padre (senza nome) che muore (in scena) appena dopo un quarto di film e i suoi tre figli – i veri tre figli del regista – che invece usano quasi tutti i loro nomi reali: Louis e Lena, solo Esther diventa Martha.
E allora non è difficile capire come Il Grande carro sia soprattutto una enorme metafora dentro la quale Garrel racchiude i sentimenti e le emozioni che abitano quest’ultima parte della sua parabola artistica e della sua vita. Sarebbe banale, nel caso di un autore così eccentrico e multiforme, definire il film come un lascito o un testamento spirituale, ma è senz’altro vero che un incedere narrativo tanto disomogeneo e a tratti impressionistico come quello che il regista utilizza, porti a considerare l’opera come un lavoro privato, personale e fortemente soggetto all’emotività. Del resto il film appare sin dalle prime inquadrature qualcosa di eccentrico rispetto al cinema più tipico del regista parigino. L’uso del colore e del formato 2,35:1 (che Garrel non utilizzava insieme da Un été brûlant del 2011) per esempio danno a Il Grande carro una dimensione differente dal solito, rendendo le immagini (che pure restano ostinatamente e ineluttabilmente in 35mm) come uno sguardo aperto e lucido sul presente.
Garrel pur restando attaccato alle questioni di sempre – le insidie dei sentimenti e della vita di coppia, l’impegno politico e l’irrinunciabilità dell’adesione alle idee comuniste, l’insofferenza verso le convenzioni borghesi – introduce temi che si fissano su questioni più intime e personali. Quasi intendesse davvero se non chiudere definitivamente con la propria poetica, almeno mettere in campo riflessioni dal respiro universale. E allora lo sguardo contempla un’idea di fine profondamente pudica (i vecchi letteralmente si fanno da parte) mentre a essere messe al centro sono le scelte che i personaggi più giovani compiono. Scelte sbagliate (quella di Martha di tenere in vita una compagnia morta) folli e controproducenti (quella di Peter di non vendere i propri quadri nonostante la profonda indigenza in cui versa), egoiste (quella di Louis di abbandonare le sorelle per inseguire le sue ambizioni attoriali), ma tutte profondamente dettate dall’amore per l’arte e quindi – sembra suggerire il regista – intrinsecamente giuste. Perché se c’è una cosa che il cinema di Garrel ha sempre insegnato e non smette di ripetere è che la libertà è la passione più ardente di tutte. E vale la pena vivere per essa!
Garrel parla di eredità. Ideale e spirituale, ovviamente. E usa la parabola di una famiglia di maestri di marionette. Il padre, animato da una passione infaticabile, cede il passo. Rimangono i tre figli a mandar avanti l’attività: Louis, Martha, Lena. Con l’aiuto di Peter, un aspirante pittore che ha lasciato da parte per un momento le velleità, e il supporto della vecchia nonna, con le sue storie e i suoi ricordi. Ma a poco a poco, il vecchio mondo si sfalda. Immancabilmente. Cosa resta di una tradizione, allora? Dell’arte di una vita? È tutto nella discussione tra Martha e Lena sull’opportunità di trovare nuove storie, per svecchiare il solito repertorio dei Pulcinella. Martha vuole conservare i vecchi testi, la misura classica. Lena è convinta che bisogna cambiare, per stare al passo con i tempi e il pubblico. Ed è questo costante cambiamento è l’unico modo per preservare la tradizione. Probabilmente ha ragione lei. Ma è Martha ad avere le visioni premonitrici, è lei che vede il futuro. Ossessionata dalla volontà di custodire il cuore profondo di un’ispirazione.
È evidente che Garrel si sta chiedendo cosa rimarrà del suo modo di far cinema. Cinema come “affare di famiglia”, un modo per svelare la verità più intima, per provare a creare relazioni e comunioni. Non a caso, chiama in gioco i tre figli, Louis, Esther e Lena, quasi come un vecchio Re Lear che vuol decidere a chi affidare il suo regno. Ma non ha certo la paura della fine e l’ansia di stabilire chi sia più degno. No, Garrel non deve difendere nessuna posizione. Per questo non c’è nessuna cupezza nel suo sguardo. Semmai una malinconia tenera, dolorosa, ma non rassegnata. Che, in fondo, è la stessa con cui da sempre racconta la vita per immagini, nel ciclo continuo degli amori che finiscono e che iniziano, delle cose perdute, delle ambizioni che vanno a morire e dei nuovi entusiasmi, dei battiti non rinnovati.