Il caso Goldman

Cédric Kahn

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Nel novembre del 1975 inizia il secondo processo a Pierre Goldman, attivista di estrema sinistra condannato in primo grado all'ergastolo per quattro rapine a mano armata, una delle quali causò la morte di due farmacisti. Lui sostiene la propria innocenza e in poche settimane divenne un'icona della sinistra intellettuale, difeso da Georges Kiejman, un giovane avvocato, ma il loro rapporto presto divenne teso. Goldman, sfuggente e provocatorio, rischiò la pena di morte e rese incerto l'esito del processo.
DATI TECNICI
Regia
Cédric Kahn
Interpreti
Arieh Worthalter, Arthur Harari, Stéphan Guérin-Tillié, Nicolas Briançon, Aurélien Chaussade, Christian Mazucchini, Jeremy Lewin, Jerzy Radziwilowicz, Chloé Lecerf, Laetitia Masson, Didier Borga, Arthur Verret, Priscilla Lopes, Paul Jeanson, Priscilla Martin
Durata
115 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Nathalie Hertzberg, Cédric Kahn
Fotografia
Patrick Ghiringhelli
Montaggio
Yann Dedet
Distribuzione
Movies Inspired
Nazionalità
Francia
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

La storia vera del secondo processo a cui fu soggetto Pierre Goldman, militante della sinistra estrema francese nel 1975. Accusato di reati multipli, Goldman ammette tutti i capi d’accusa con la veemente eccezione di quelli per omicidio, per i quali non solo si proclama innocente ma si scaglia polemicamente contro tutto e tutti nell’aula di tribunale, rifiutando qualunque caratterizzazione moralistica della sua difficile vita.

Regista e attore ormai veterano del circuito francese, e spesso sensibile all’ispirazione letteraria, Cédric Kahn estrae dalla cronaca anni settanta uno dei suoi film più tesi e meglio riusciti, riportando in auge la figura dell’attivista Pierre Goldman e del suo processo per omicidio. L’elemento letterario rimane comunque presente, visto che Goldman si fa conoscere (anche da Kahn stesso) per il libro “Memorie oscure di un ebreo polacco nato in Francia“; e del resto questo thriller serrato – intrappolato in modo asfissiante nell’aula giudiziaria – è soprattutto un’opera sul linguaggio e sulla meta-drammaturgia in cui l’universo legale spesso si rifugia.

Le procès Goldman arriva a breve distanza dal grande successo di Saint Omer di Alice Diop, titolo che gli è vicino per come testa i limiti tanto della forma del processo cinematografico quanto quella del processo tout court: in entrambi i casi non c’è in ballo solo l’esito legale, ma la narrativizzazione (a volte perniciosa, e sempre irresistibile) della persona come arma della contesa e come chiave interpretativa di ambigui temi sociali, razziali e politici. La cronaca giudiziaria in Francia è del resto un genere letterario e giornalistico di straordinaria longevità, ed è a questa tradizione che Goldman obietta quando, in apertura del processo, rifiuta di parlare di sé e della propria vita in cerca di pathos e di racconto. “Sono innocente perché sono innocente” dice, tautologia assoluta che dichiara guerra in un sol colpo all’apparato legale e culturale di un paese intero.

È l’inizio di un racconto fatto di sguardi incrociati in una stanza affollata (di poliziotti ma anche di sostenitori di Goldman, un coro greco di reazioni che testimoniano del valore politico del personaggio), che si chiuderà con il verdetto senza concedere nulla al mondo esterno, mentre la rabbia iconoclasta del protagonista non risparmia nemmeno il suo stesso avvocato. Alla figura di quest’ultimo (Georges Kiejman, interpretato da Arthur Harari) viene affidato un breve ma significativo incipit che mette da subito in tensione l’elemento dell’ebraismo di Goldman con il sistema da cui si sente perseguitato, arrivando a equiparare la popolazione ebrea con quella di colore in Francia (e creando così un altro ponte con Saint Omer, che a distanza di decenni riprende il discorso).

Un’opera dai risvolti tanto complessi – eppur così asciutta nel ritmo e nella struttura – si poggia naturalmente sulla furiosa e carismatica interpretazione di Arieh Worthalter, attore belga il cui talento camaleontico viene finalmente premiato con un ruolo di primo piano. Era il padre della protagonista in Girl di Lukas Dhont, e forniva una prova diametralmente opposta al suo Goldman in Rien à perdre al fianco di Virginie Efira. Ora è insieme mattatore e sabotatore, uomo animato dalla contraddizione, e personaggio cinematografico dal magnetismo innegabile.

 

Mymovies

Se si esclude una breve sequenza introduttiva, in cui il principale avvocato difensore di Pierre Goldman (Georges Kiejman, venuto a mancare ultranovantenne lo scorso 9 maggio, fu un vero e proprio principe del foro in Francia, e difese tra gli altri anche Guy Debord e il suo editore Gérard Lebovici: nel primo volume di Correspondance, pubblicato da Gallimard nel 1978, si può leggere il polemico scambio di lettere che i tre ebbero) è sul punto di abbandonare il ruolo perché pensa che il suo assistito non abbia la benché minima fiducia in lui, Le Procès Goldman (Il caso Goldman) si svolge interamente nell’aula di tribunale – e nella cella lì accanto dove l’accusato passa i minuti e le ore in cui il processo non ha luogo – e segue alla lettera solo ed esclusivamente le testimonianze rintracciate tanto dal pubblico ministero quanto dai difendenti. In una delle primissime battute del film il giudice si rivolge a Goldman e gli chiede di rievocare la sua infanzia e adolescenza: probabilmente la stragrande maggioranza dei registi avrebbe “approfittato” di un appiglio simile per rincorrere l’idea della ricostruzione della vita del giovane Goldman, e quindi oggettivare un momento che non ha verità possibili, ma solo supposizioni. Cédric Kahn, che torna alla regia a quattro anni di distanza da Fête de famille, sceglie invece di non muoversi mai dall’aula del tribunale, di non uscire mai da quel momento, di non provare in nessun modo a forzare la mano attribuendo alle proprie immagini il grado di “verità”. Una scelta che depotenzia in modo volontario qualsiasi velleità spettacolare; chi entra nella sala in cui si svolge Il caso Goldman non deve attendersi testimoni a sorpresa, confutazioni mirabolanti, documentazioni ritrovate all’ultimo istante, arringhe al fulmicotone. Kahn rifugge qualsiasi regola (non) scritta del genere giudiziario e si muove in una direzione apertamente oppositiva.

Certo, si potrà suggerire che ciò accade perché Pierre Goldman venne processato davvero, rischiò realmente di finire in carcere a vita con l’accusa di aver freddato due farmacisti durante un tentativo di rapina (ed è con sardonica mestizia che si apprende dalle fugaci informazioni bianche su schermo nero al termine del film che l’uomo trovò comunque una morte prematura nel 1979 in frangenti su cui non si è mai davvero fatta chiarezza). Ciò accade insomma perché quella raccontata per immagini da Kahn è una “storia vera”. Ma quante volte il cinema si è fatto beffe del concetto di vero? Anche legittimamente, sia chiaro, vista la sua natura ri-costruttiva, e dunque inattendibile per quel che concerne l’attributo di verità; ma allo stesso tempo rivendicando quella discendenza “reale”, e dunque di fatto inattaccabile. Kahn al contrario opta per una macchina-cinema che sia sempre continuamente dialettica; mette le une posizioni di fronte alle altre, e segue il dibattimento in aula come se si stesse facendo un esercizio filosofico. In questo modo, di fatto dichiarando che qualsiasi verità espressa come tale ha sempre un fondamento politico, e che solo lo sguardo politico sulla vita e la società ci permette di ribadire una “verità”, Kahn inserisce con forza la rivisitazione di un processo che dilaniò l’opinione pubblica francese quasi cinquant’anni fa – Goldman era un rivoluzionario marxista e sionista, e si riteneva innocente in quanto tale, in una dimensione ontologica – nella contemporaneità, senza mai però deviare dal percorso, senza attualizzare determinate battute o situazioni.

La Francia del 1976, esattamente come quella del 2023 – ma il discorso ovviamente non vale solo per la realtà transalpina –, è dominata dal pregiudizio, e se si appartiene a una determinata etnia, o a un determinato gruppo sociale è più “facile” essere visti come ladri, criminali, assassini. Goldman denuncia il fatto che la sua accusa si basi semplicemente sul suo essere ebreo, ma non fa distinzione tra se stesso o i suoi amici creoli e venezuelani: il sistema politico, giudiziario, e poliziesco francese ha già il suo colpevole quando si trova di fronte a una persona così. Per quanto tale suggestione trovi conferma in alcune testimonianze del film, Kahn di nuovo si muove in forma puramente dialettica, come certifica l’arringa finale di uno dei due pubblici ministeri che vorrebbero Goldman colpevole per tutti i capi d’accusa: lì forse, più ancora che in tutte le altre dichiarazioni fatte nel corso delle quasi due ore in cui si snoda Il caso Goldman, è possibile rintracciare il senso di un’operazione cinematografica per niente banale, che squarcia il velo dell’ottusità che si cela dietro la bieca dicotomia vero/falso e cerca la stratificazione, e dunque l’umano, la sua dignità e il suo onere.

 

Quinlan