Roberto Minervini
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
Sin dalla prima scena, in cui vediamo un branco di lupi sbranare il cadavere di un animale, Minervini ci immerge in un mondo dominato dalla morte e dall’istinto di sopravvivenza. Le bestie come gli esseri umani sono dei “dannati” e il regista qui racconta la via crucis di un plotone di soldati dell’esercito americano durante la Guerra Civile, costretto ad aspettare rinforzi, ad affrontare gli elementi avversi di un paesaggio imperturbabile e ostile e a farsi domande sul senso dell’uccidere e della guerra. Infatti nel mezzo di un’attesa quasi beckettiana spuntano, all’improvviso, gli agguati di un nemico che non vediamo mai nitidamente, relegato a ombre in profondità di campo o colpi di arma da fuoco tra gli alberi. La regia di Minervini sceglie di battere tre strade principali: la contemplazione ieratica e oscura del paesaggio di frontiera, il pedinamento nei confronti dei soldati e il primo piano dei personaggi che si confessano e si interrogano durante le poche scene di dialogo. Impeccabile nei suoi dettagli di “realismo estetizzante” – i fiocchi di neve sui volti, il vento sferzante sui crini di cavallo, i suoni della natura, i cadaveri nel fango – il film insegue ambiziosamente un’astrazione tra materia cruda e trascendenza, con il contributo decisivo del compositore e direttore della fotografia Carlos Alfonso Corral. Questa dimensione chiaramente fa abbandonare al cinema di Minervini la rabbia e il linguaggio diretto delle opere precedenti. Forse il limite e il fascino di I dannati risiede proprio nel suo essere un film senza peso, tra il tutto e il nulla, collocato nella stessa no man’s land in cui finiscono intrappolati i soldati protagonisti: fuori dal tempo e fuori dallo spazio, della storia come degli schematismi cinematografici, di “genere”, che qui vengono inevitabilmente a confondersi in un oggetto alieno e ibrido, tra il western, il film politico e il documentarismo visionario.
Inverno, 1862. Da qualche parte nelle terre dell’Ovest, un manipolo di soldati nordisti deve perlustrare il territorio e resistere due settimane prima dell’arrivo della ‘cavalleria’. In attesa di un nemico invisibile organizzano il campo e le guardie. Giovani volontari, che hanno sparato soltanto ai conigli, o soldati di lungo corso, che lucidano Colt e fucili, giocano a carte e si scambiano pensieri sulla guerra civile che dilania l’America. Come solo orizzonte un crinale dietro il quale riparare ed oltre il quale avanzare e interrogare il senso del loro arruolamento. Sono soli sulla terra, trafitti soltanto da un colpo di carabina, ed è subito neve.
I nordisti, i cavalli, le giubbe blu, le montagne innevate, i carri, l’accampamento… sono tutti archetipi del western eppure nel film di Roberto Minervini sembra di scoprirli per la prima volta. È una questione di sguardo, di tempo, di suoni, soprattutto di silenzio, è una questione di attesa (soltanto Buzzati ha fatto meglio), è una questione di soldati perduti, malgrado la fede, il padre e la Patria.
Discretamente e ostinatamente, l’autore italiano traslocato in America prosegue la sua strada di cinema, un sentiero accidentato ai margini di Hollywood e contro le regole dello spettacolo dominante. Si fa domande Minervini e le risposte sono sempre magnifiche. Questa volta è un film di guerra come una preghiera, fondato sull’esperienza della durata, l’attenzione minuziosa alle persone e ai luoghi, la forza tellurica dei quadri, gli spazi vergini, l’assordante laconismo degli attori.
Perché i suoi film parlano un po’ meno, osservano un po’ di più e comprendono meglio quello che siamo. I paesaggi sommergono lo schermo e hanno il tempo di depositarsi, come i personaggi, che marciano o resistono trafiggendo con la loro presenza e le loro questioni montagne e pianure. E in quello spazio infinito c’è sempre un posto dove raggomitolarsi, come il soldato che si è arruolato senza ragione e adesso ‘sente’ la vita come la neve.
I dannati comincia come il romanzo di Stephen Crane (“Il segno rosso del coraggio”), fonte di tutta la letteratura sulla guerra civile americana (1861-1865), avanza a cavallo lungo sentieri di fango liquido, costeggia un fiume nero e poi smonta i soldati per montare alloggi e rifugi da occupare con settimane di ozio e di monotona attesa. Un raggio di sole dorato buca le nuvole e accarezza le barbe incolte dei ‘guerrieri’, sfuggendo liricamente alla circolarità dei loro ragionamenti. Minervini compone dei tableaux vivants di una guerra che è tutte le guerre insieme, dove i soldati combattono per diventare uomini, forse eroi, sicuramente cadaveri. Il film prende piena misura del destino dell’individuo in mezzo a forze collettive. La battaglia è imminente, l’inferno non è mai lontano. Irrompe improvviso nelle immagini e nei suoni, avvicinando la narrazione al fantastico, come per ritagliare le scene di guerra da una possibile realtà. Quello che i soldati vedono non è di questo mondo, ma appartiene al regno dei morti.