Giurato numero 2

Clint Eastwood

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Durante il mandato da giurato in un processo per omicidio di alto livello, Justin Kemp, un giovane padre di famiglia che si trova alle prese con un grave dilemma morale che potrebbe influenzare il verdetto della giuria e potenzialmente condannare – o liberare – l’imputato di omicidio.
DATI TECNICI
Regia
Clint Eastwood
Interpreti
Nicholas Hoult, Leslie Bibb, J.K. Simmons, Zoey Deutch, Toni Collette, Kiefer Sutherland, Gabriel Basso, Chris Messina, Amy Aquino, Cedric Yarbrough, Drew Scheid, Adrienne C. Moore, Hedy Nasser, Jason Coviello, Francesca Eastwood
Durata
114 min.
Genere
Thriller
Sceneggiatura
Jonathan Abrams
Fotografia
Yves Bélanger
Montaggio
David Cox, Joel Cox
Musiche
Mark Mancina
Distribuzione
Warner Bros. Italia
Nazionalità
USA
Anno
2024

Presentazione e critica

Oltre il colpevole, oltre l’innocente. In mezzo, la bilancia della giustizia. Imperfetta, sconnessa, ma anche “l’unica possibile”. Clint Eastwood, novantaquattro anni suonati, torna ad esplorare la moralità umana, affiancandosi per toni e colori a Gran Torino e, per certi versi, anche a The Mule. Filmografia altalenante, a volte fin troppo coriacea rispetto ad una malleabilità invece essenziale (ma comunque coerente e ossuta, nel bene ma anche nel male), il regista Born in the USA perciò si rifà ai più classici dei giudiziari per Giurato numero 2.

Un grande film, e lo scriviamo in apertura di opinione. Un’opera in grado di lavorare per sintesi, andando dritto al punto. Sia dal punto di vista visivo che da quello narrativo. L’essenzialità che solo il miglior storytelling possiede. Sono gli sguardi e sono le parole, infatti, a fare la differenza, modellando una tensione che avanza di azione per azione (e di flashback in flashback), facendoci sentire le stesse emozioni di un protagonista che, per diametro e svolte, somiglia a noi. Generando un brivido di marcata consapevolezza.

Potremmo essere noi perché il protagonista, Justin Kemp, giornalista locale e padre di famiglia (una figlia in arrivo), è l’archetipico uomo comune tanto caro a Clint Eastwood. “A normal man”, lo chiama, chi comincia a sospettare che i fatti siano più complicati di come sembrano. Viene chiamato per fare parte di una giuria popolare che dovrebbe decidere la colpevolezza o l’innocenza di quello che pare un omicidio intenzionale: l’accusato, con diversi precedenti, è infatti alla sbarra in quanto sospettato di aver ucciso la sua compagna lungo la strada, dopo una litigata in un pub, scaraventando poi il corpo in un fossato. Il dilemma stretto intorno ad un protagonista a cui, il regista, poco a poco toglie spazio e aria. Un gioco di tensione, raffinato e coinvolgente, in cui ci sentiamo necessariamente tirati in causa.

La regola dell’uomo comune applicata al cinema: qualcosa che può accadere a tutti. È questa la peculiarità di Giurato numero 2, e più in generale la peculiarità del cinema di Eastwood: un’adiacenza rispetto all’umanità squilibrata e contraddittoria dei propri personaggi. Perciò, se “sono i segreti a farci ammalare”, i confini di Justin cominciano a crollare, ritrovandosi in un incubo senza apparente via d’uscita. Se gli occhi di ghiaccio di Hoult (guarda caso, lo stesso colore degli occhi di Eastwood) sono perfetti per esaltare le emozioni del personaggio, a cui ruotano attorno diverse figure in grado di far risuonare la sceneggiatura: la tenera moglie Ally, e poi Faith Killebrew, pubblico ministero interpretata da una grande Toni Collette, tra arringhe e dubbi, fino all’ex detective Harold, anch’esso giurato, e poi l’avvocato Resnick che crede fermamente nella parola del suo assistito, ossia James Michael Sythe. Per quanto possibile, lo script e quindi la regia, alterna al meglio i diversi piani d’ascolto, facendosi marcata accusa al lacunoso sistema giudiziario americano: la giustizia, pietra fondante della Costituzione più spettacolare di tutte, pronta a salvare i colpevoli e condannare gli innocenti. Legal movie disfunzionale, potremmo quasi definirlo, in cui l’innocenza passa attraverso un carico di responsabilità che finisce per fare i conti con quello che verrà definito una “vittima di circostanze terribili”. Chiaro infatti (e folgorante, non c’è che dire) lo stimolo del regista, affiancando alla tensione stessa una sottilissima verve umoristica che, di quando in quando, irrompe in scena rendendo il tutto più credibile, e se vogliamo ancora più coeso.In questo senso, il gioco all’incastro di Clint Eastwood per Giurato numero 2 viene enfatizzato dalla traccia sociale che riflette il concetto stesso di giustizia (e non a caso il film si apre proprio con Iustitia, la dea romana bendata), come avvenuto appunto in Gran Turismo: è la soggettività che traccerà una discolpa solo apparente, oltre la classica definizione di colpevolezza che il regista finisce per ribaltare seguendo un’introspezione livellata che si inserisce negli spazi aperti di un film dal forte ritmo e dal forte riverbero. Perché poi è il tempo che fa la differenza (e Clint lo sa bene), sia nel cinema come (e soprattutto) nella vita. Se “la verità non è giustizia” ma solo un altro punto di vista, quella di Giurato numero 2 è quindi più spaventosa di come appare, nonché diretta conseguenza dell’epoca raccontata da un regista lucido nelle domande che pone, e sempre credibile rispetto alle risposte che suggerisce. Al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

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(…) Clint Eastwood non ha più tempo da perdere, a 94 anni continua a girare con la regolarità di un metronomo e va dritto al punto, piombandoci in una (messa in) scena coniugale, un’immagine che il film metterà rapidamente in crisi. Giurato numero 2 gioca costantemente col motivo del visibile e dell’invisibile, dell’evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera… L’autore passa il tempo a evidenziare i punti ciechi, quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce. La fotografia è limpida, l’illuminazione uniforme, l’inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare l’eroe e che richiede una sola scelta giusta. Non è tanto la morale in sé a essere messa in discussione, quanto la nostra capacità di cogliere i fatti a cui applicarla.

Eastwood comincia informandoci meticolosamente su uno degli aspetti fondamentali del sistema giudiziario americano, la rigorosa selezione dei dodici membri della giuria popolare. Con la logica scrupolosa di Sidney Lumet (La parola ai giurati) si addentra nelle convinzioni e poi nei dubbi dei giurati che si confrontano, uno dopo l’altro, ma con l’idea perversa che il giurato migliore, quello che come Henry Fonda non vuole affrettare il destino dell’accusato, non sia altro che il colpevole. Nessuno spoiler, è tutto nel trailer e nel debutto del film. A colpi di flashback, (di)mostra che il giurato numero 2 è quasi certamente all’origine dell’atto criminale. Se il ripiegamento della colpevolezza all’interno del cerchio dei giurati priva improvvisamente lo spettatore di qualsiasi suspense futura, la grande originalità dello script di Jonathan Abrams consiste nello sviluppare un’altra forma di tensione ascendente, stringendo gradualmente il cappio intorno al suo antieroe in preda a un dilemma insostenibile. Così mentre tutti i giurati sono convinti della colpevolezza dell’accusato, Justin, roso dalla colpa, guadagna tempo e prova a convincere chi vuole soltanto chiudere rapidamente.

Clint Eastwood compone con la giuria, con l’accusa e con la difesa, individuando la complessità psicologica di ciascuno dei suoi personaggi e dispiegando la gravitas del film nelle interazioni tra i personaggi. Nessun ruolo, nemmeno il più piccolo, cede alla caricatura, attraversando conflitti intimi e rivelando insieme la fragilità del sistema legale americano, quando pregiudizi e presupposti profondi prevalgono sulle prove concrete, a volte anche con la sincera convinzione di fare del bene. Ma come la sua procuratrice, bussola morale del film, Eastwood non smette di cercare la verità per guardarla in faccia in una sequenza finale sospesa che suona come l’ultima ingiunzione aperta di un autore che non ha più nulla da dimostrare. Affatto interessato a impressionare qualcuno, usa il racconto cinematografico per riflettere costantemente su quello che pensa, convocando una vertigine metafisica. Un’ode al ragionevole dubbio e alla complessità in contrasto con l’attuale polarizzazione delle nostre società e con l’antico riflesso di accontentarsi delle spiegazioni più comode e immediate. (…) Ieri l’eroe eastwoodiano ci chiedeva di capirlo e persino di amarlo, oggi è un bastardo che ha tradito la legge morale per i propri interessi. Ieri ha dato volontariamente la sua vita e l’ha presa. La sua assunzione è stato il fondamento della sua venerazione, prima ostentata poi sempre più discreta. Ma Justin Kemp è un mondo a parte rispetto al protagonista di Eastwood. Un individuo che si trova ad affrontare situazioni straordinarie, come Richard Jewell o il capitano Sully, causate da lui. L’aporia morale lo conduce in un vicolo cieco dove diventa impossibile seguirlo. Perdonato da chi gli è più vicino, Justin è comunque l’unforgiven a cui la giustizia presenta il conto e nessuna redenzione. Forse è questo il testamento di Eastwood, essere sempre stato dove non te lo aspetti: dietro la porta che si apre sul mistero insondabile della coscienza umana, dentro un epilogo che si gioca sui soli volti di un attore e di un’attrice, nella conclusione (?) struggente di una filmografia che non ha mai smesso di guardarsi in faccia. In un Paese in cui la verità (fattuale) viene denigrata o totalmente ignorata, Clint Eastwood prende una posizione indispensabile.

 

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