Frankenstein Junior

Mel Brooks

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Il medico e famoso professore universitario Frederick Frankenstein, nipote del famigerato Dottor Victor von Frankenstein, ha cambiato la pronuncia del suo cognome sperando che passi inosservata la parentela con suo nonno, di cui Frederick rifiuta le teorie mediche ritenendole il parto di una mente folle. Tutto viene stravolto quando dopo una sua lezione di neurologia all’università, Frederick riceve la visita di un notaio che gli comunica di aver ricevuto in eredità dal nonno un castello in Transilvania. Incuriosito dal lascito, il professore parte immediatamente per la Romania dove fa subito la conoscenza di Igor, nipote dell’assistente del nonno che, ironizzando sulla fissazione del cambio di pronuncia di Frederick, insiste per farsi chiamare “Aigor”. Il giovane Frankenstein fa anche la conoscenza della bella assistente Inga e dell’inquietante quanto misteriosa Frau Blucher, il cui nome suscita terrore anche nei cavalli del castello. Frederick viene “ispirato” dal ritrovamento degli appunti del nonno e inizia a cercare di dare vita anche lui a una creatura. Dopo aver recuperato un cadavere e un cervello da inserire nel corpo, il giovane professore da inizio al suo progetto di resurrezione, la creatura però, avendo ricevuto un cervello “ABNORMAL” inizia a comportarsi in modo assurdo finché riesce a scappare dal castello. Durante la sua fuga, incontra una serie di persone, sperimenta il fuoco e, terrorizzato, viene ritrovato da Frederick e ricondotto al castello. Le vicissitudini del “Mostro” non sono finite, la sua paura del fuoco gli fa avere delle reazioni inconsulte che lo portano anche in carcere. Dalla prigione riuscirà poi a evadere e durante la fuga incontrerà qualcuno in grado di cambiargli la vita. Nel frattempo il suo creatore, dopo aver compreso il dolore che la creatura ha dovuto sopportare per causa sua, tenterà di porre rimedio ai suoi errori...  
DATI TECNICI
Regia
Mel Brooks
Interpreti
Gene Wilder, Peter Boyle, Marty Feldman, Madeline Kahn, Cloris Leachman, Teri Garr, Kenneth Mars, Richard Haydn, Liam Dunn, Danny Goldman, Monte Landis, Gene Hackman, Lou Cutell, Randolph Dobb
Durata
106 min.
Genere
Commedia
Sceneggiatura
Gene Wilder, Mel Brooks
Fotografia
Gerald Hirschfeld
Montaggio
John C. Howard
Musiche
John Morris
Nazionalità
USA
Anno
1974

Presentazione e critica

Il dottor Frankenstein, nipote del celeberrimo medico, è un affermato neurochirurgo che vive e insegna in una università negli Stati Uniti ed è impegnato a far dimenticare la sua discendenza dal creatore della Cosa. Un giorno però riceve l’invito a recarsi nel castello del nonno in Transilvania a causa di un lascito testamentario. Finisce così per essere attratto dall’atmosfera del luogo, scopre il polveroso laboratorio in cui venne portato a termine l’esperimento e decide di tentare a sua volta l’impresa trafugando un cadavere per restituirgli la vita.

 

L’eclettismo parodistico di Mel Brooks gli fa realizzare nello stesso periodo Mezzogiorno e mezzo di fuoco e Frankenstein Junior ma è il secondo destinato a rimanere nella storia del cinema. Perché in questo caso riesce ad andare ben oltre alla parodia grazie forse anche alla collaborazione di Gene Wilder alla sceneggiatura. La cura dei particolari è segno dell’amore che Brooks prova per il cinema che vuole prendere amabilmente in giro. Le location sono un continuo rimando ai tempi che furono. L’arrivo del treno alla stazione viene girato sul set di Prigionieri del passato, il furto del cadavere è collocato vicino alla chiesa in cui Greer Garson si sposava ne La signora Miniver e l’assalto degli abitanti del villaggio fa uso del set de I fratelli Grimm. Ma c’è di più: per il laboratorio Brooks richiama in servizio Ken Strickfanden (all’epoca ottantenne) che era stato scenografo sul set del film di Whale.

Tutto questo, unito a una straordinaria fotografia in bianco e nero e all’uso di musiche utilizzate nelle colonne sonore dell’epoca, conferma l’attenzione quasi maniacale nella ricostruzione del clima giusto. Su questa base si innerva un umorismo che non vuole essere dissacrante e che lascia trapelare la nostalgia senza però frenare la comicità.Questa si dispiega grazie a un Wilder la cui nevrotica calma apparente ha modo di esplicitarsi in tutte le sue varianti sostenuta com’è dai coprotagonisti tra i quali spiccano gli occhi indimenticabili di Marty Feldman, Igor da antologia con gobba mobile in grado di permettersi degli sguardi in macchina che ricordano allo spettatore che la sua complicità è necessaria per un divertimento che è però comunque assicurato e resiste nel tempo.

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Chi l’avrebbe mai detto che per entrare nella storia del cinema comico sarebbero stati fondamentali la misura delle gag, il rispetto delle regole di scrittura, la disciplina visiva? Certo, Frankenstein Junior, di Mel Brooks, che ritorna nelle sale in una versione restaurata e digitalizzata, rappresenta l’acme della brillante inventiva del regista ebreo e del suo stupendo partner in crime sia in fase di sceneggiatura che sullo schermo Gene Wilder – qui splendidamente riccioluto e con un lampo negli occhi che ad ogni inquadratura rende conto dell’infinitesimale passo che lo separa dalla follia – ma a risaltare in questa barocca e gaglioffa caricatura del capostipite di James Whale e dei suoi seguiti incentrati sulle vicende della Creatura (e del suo parentado stretto) assemblata da Victor Frankenstein è soprattutto la devozione verso un tipo di cinema fondamentale nella creazione dell’immaginario di generazioni di spettatori. In spettacolare equilibrio tra la voglia di divertirsi e quella di omaggiare la Golden Age di Hollywood del cinema horror (l’utilizzo delle stesse scenografie del laboratorio e dei materiali del set realizzate da Kenneth Strickfaden), Frankestein Junior è infatti una derivazione molto rispettosa della mitologia venutasi a creare dal romanzo di Mary Shelley. Brooks fa inizialmente leva sull’iniziale riottosità del nipote di Victor Frankenstein ad accettare il retaggio del celebre zio ma finisce capovolgendo l’assunto di partenza del film e del suo protagonista facendogli abbracciare e celebrare l’inveterata eredità pseudo-scientifica ed esistenziale del celeberrimo avo di cui ripercorre anche le fregole sessuali, una costante del cinema del regista statunitense che qui ha il fondamentale merito di non scadere nel pecoreccio di tanti altri suoi film.

Ancora una volta il luogo dove vincere la sempiterna battaglia con la Morte ed abbattere al contempo le barriere morali – la frustrazione della libido nei confronti della laccata ma frigida moglie Elizabeth – è la misteriosa Transilvania, quella specie di enclave balcanica in cui si coagulano in una strana mistura, qui fotografata in maniera sontuosa da Gerald Hirschfeld, il proibito dell’Occidente e la magia dell’Oriente. Il razionalismo positivista di Frederick viene messo alla prova per tutto il lungometraggio venendo già turbato dall’ingresso in scena di quella che probabilmente rimane una delle spalle comiche più riuscite del cinema, ovvero l’Igor interpretato da Marty Feldman. È il gibboso aiutante infatti a rompere definitivamente l’ordino fenomenico delle cose con la sua gobba semovente e la disastrosa decisione di prendere, tra tutta la gamma di cervelli presente, proprio quello etichettato vistosamente con la dicitura “Abnorme”. Come però nelle commedie greche, l’iniziale impasse di gestione della Creatura sarà superata attraverso lo scambio di materia grigia tra l’energico freak ed il complessato scienziato che renderà migliori entrambi attraverso la contaminazione intellettuale. È questo il messaggio che “si può fare”, ed andrebbe fatto, anche oggi.

 

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Parodia horror oppure horror tout court? La smagliante fotografia d’epoca, l’eroina posseduta (dal demone della manicure) Madeline Kahn, le citazioni dei classici (mai pedisseque, a differenza di quanto avviene nel successivo Dracula morto e contento), la girandola di cliché (subito irresistibilmente contraddetti), invenzioni visive e verbali (malamente rese nell’edizione italiana) ed estasi musicali, tutto in questo film è prossimo tanto alla farsa quanto alla tragedia. Brooks inserisce nel racconto elementi inspiegabili (lo scrigno del morto, la gobba di Aigor), spinge all’estremo la tensione, al raggiungimento dell’apice emotivo sterza nel grottesco (la sfilata dei teschi) e riesce a turbare davvero, anche grazie a caratteristi stupendi (su tutti Cloris Leachman, sublime vestale dal torbido passato, e Marty Feldman, che è insieme apocalittico memento e testimonianza di beffardo disincanto: ‘Mio nonno lavorava per suo nonno, ma il compenso adesso è il triplo’) e a un Gene Wilder magistralmente in bilico (come chi guarda) tra l’incredulità dello scienziato e il fatale seme della follia di famiglia. Inventando senza sosta, canzonando senza limiti prestabiliti, giocando senza tregua con le aspettative dello spettatore, Brooks riprende con chirurgica precisione i temi del romanzo di Mary Shelley (dalla sposa del mostro alla crudeltà come unica reazione all’isolamento), cesellando un’opera sarcastica e inquieta(nte) come poche altre nel suo genere (qualunque esso sia).

Capolavoro.

 

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