Gints Zilbalodis
DATI TECNICI
Regia
Durata
Genere
Sceneggiatura
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Un gatto nero vede salire pericolosamente intorno a sé il livello dell’acqua, come per un diluvio universale che mira a sommergere il suo mondo. Il gatto comincia a saltellare di superficie in superficie, finché non zompa a bordo di un natante che è una sorta di arca biblica dove si raccoglierà un gruppetto di altri animali in fuga dall’inondazione: un labrador, un capibara, un lemure, e uno strano uccello gigante che potrebbe rivelarsi un predatore. Il gatto, indipendente e solitario per natura, e inizialmente preoccupato solo di salvare se stesso, dovrà imparare a fare squadra. Intorno a lui tanta natura sommersa e qualche manufatto, a indicare la presenza di un’umanità forse scomparsa in epoca precedente: perché il tempo e il luogo qui sono indefiniti, a indicare quell’eterno presente in cui vivono gli animali, intenti solo alla sopravvivenza giorno per giorno, e in questo caso attimo per attimo.
Flow è l’eccezionale film di animazione in grafica computerizzata 3D (ma dal sapore fortemente artigianale) del regista lèttone Gints Zilbalodis, che riesce a creare una metafora allo stesso tempo cinematograficamente avvincente e filosofica raccontando in purezza, e con andamento incalzante, il flusso (questo significa “flow”) della vita che gli animali assecondano con saggezza e sano opportuno.Non ci sono dialoghi, solo immagini e suoni (eccezionale l’occasionale commento musicale dello stesso Zilbalodis insieme al compositore e connazionale Rihards Zalupe). Il tratto semplice e senza fronzoli risulta incantevole e quasi ipnotico nel trasportarci di sequenza in sequenza, e il fatto che rimandi in qualche modo al videogame non fa altro che aggiungere potenza metafisica alla storia.
Il gatto protagonista ricorda un po’ quello che insieme alla gabbianella animava il film culto di Enzo D’Alò, e ci identifichiamo in lui come in qualunque eroe umano di avventura: sentiamo la sua paura, ammiriamo il suo coraggio, comprendiamo i suoi dubbi circa i compagni di traversata. E lo vediamo compiere gesti di generosità e altruismo dei quali ci domanderemo se saremmo altrettanto capaci, imparando a dare e a ricevere fiducia. L’acqua è ovunque, in fiumi, distese, cascate improvvise (e si sa quanto sia difficile rendere credibile l’acqua in animazione); sotto si intravvede un mondo arcaico e selvatico, impotente d fronte all’inondazione. Tutto scorre, come in Eraclito, perché questa è la vita, e gli animali lo intuiscono e lo accettano meglio di noi. Flow non è un film solo per bambini: anche gli adulti ne seguiranno con meraviglia l’animazione in costante movimento e si appassioneranno alle vicende mozzafiato del gruppetto di animali di fronte a sempre nuovi imprevisti. Il film di Zilbalodis è una continua invenzione artistica e narrativa, un incalzare incessante di piccoli e grandi eventi che scorrono insieme assumendo la forma mutevole dell’acqua. C’è qualcosa di universalmente riconoscibile, di nobile e profondo, in questa narrazione meno morbida e rassicurante del tratto di disegno francese (anche se il regista ha portato in squadra artisti francesi e belgi) e meno spigolosa e a tratti grottesca di quello giapponese. Qui l’animazione è rigorosa ed essenziale, forse anche a causa della matrice luterana lèttone, ma è spirituale senza operare scelte religiose.Flow è anche una parabola ammonitrice di ispirazione ecologista, ma non diventa mai una lezioncina pedestre o un “catastrophy movie”. È invece un’ode alla solidarietà e alla cooperazione, necessarie per sopravvivere anche agli eventi che rischiano di annullarci per sempre.
Paradossale pensare che proprio nell’ambito dell’animazione, che davvero permette di dar spazio alla fantasia e all’estro artistico, il processo creativo si sia standardizzato su modelli precostruiti e funzionali esclusivamente, o quasi, alla vendita. Così per trovare qualcosa di nuovo è facile pensare di rivolgere lo sguardo verso territori indipendenti e distanti dalle major – non è, chiaramente, la regola, basti pensare a Il Robot Selvaggio di Chris Sanders, prodotto da Dreamworks – o provenienti da zone che si potrebbero definire periferiche, lontane quantomeno dalle attenzioni e soprattutto dalle aspettative internazionali. È il caso di Flow – Un mondo da salvare, opera seconda di Gints Zilbalodis, ambiziosa produzione proveniente dalla Lettonia – tra i migliori film da vedere al cinema: un’odissea nella quale un impavido felino, accompagnato da un gruppo eterogeneo e strambo di animali, proverà a sfidare una natura nel caos, cercando di trovare una via di fuga da una imprevista marea che ha sommerso tutto e di collaborare per non soccombere. Non ci sono esseri umani in Flow. C’è quello che hanno prodotto, causato, generato. Della loro presenza vivente, però, restano solo le tracce e l’eco, che siano macerie o imponenti costruzioni totemiche. E, di conseguenza, non c’è la parvenza di alcuna linea di dialogo.
Restano solo gli animali, dipinti nella loro forma reale, lontani dal somigliare all’uomo, liberati dalle antropomorfizzazioni che spesso al cinema e in tv ne hanno snaturato le peculiarità – onor del vero, titoli come BoJack Horseman riuscivano, seppur giocando con la punchline umoristica e la gag a sfruttare vizi e virtù delle singole specie, ma sono casi isolati – e per questo incapaci di parlare. Si evince che Zilbalodis abbia fede e fiducia non nell’atto del parlare ma nella comunicazione in senso lato, permettendo alla sua schiera di creature di dire più di quanto non si possa riuscire con le frasi, attraverso sguardi e movimenti universali, azioni ma soprattutto reazioni: un’idea di storytelling che vuole essere anzitutto visuale, tornando quasi alla radice stessa del cinema e della sua performatività estetica, alla sua capacità di modellare il visivo per renderlo autosufficiente. Senza appigli cronologici specifici si può solo ipotizzare cosa sia successo a quel mondo ormai popolato solo da animali, senza nomi ma capaci di avere una propria individualità, identità e carattere. Non serve sapere cosa ci sia stato prima e cosa accadrà dopo (anche se proprio il dopo, soprattutto dopo i titoli di coda, lo si può intuire); si è nella dimensione della favola e del racconto morale esopico, sul piano attivo della narrazione, mentre su quello visivo può essere facile pensare ad un potenziale legame con il videogioco Ico (2001) – per citare un titolo con il quale il film in questione può condividere più di un aspetto – o, più in generale, all’esperienza grafica di PlayStation 2. Per l’autore lettone il fulcro di Flow sta proprio nel suo flusso immersivo, nel movimento costante, di corpi e onde, anche la destinazione non è nota. Ciò che conta è continuare a muoversi, perché il rischio è quello di affogare. Il flow del titolo così sembra anche quello della, simulata, macchina da presa, che come i protagonisti si muove con agilità, quasi fluttuando, attraverso gli spazi, smarrendosi e ritrovandosi, esplorandone le potenzialità tanto espressive quanto metaforiche. È attraverso il piano sequenza e il montaggio interno, che scandisce l’efficiente narrazione per immagini, che nel film di Gints Zilbalodis forma e contenuto trovano una sintesi funzionale, oltre che un istantaneo senso di vicinanza ed empatia nei confronti del gatto e del resto dell’equipaggio dell’arca. Il percorso allora diventa punto cardine non solo della narrazione ma per l’intero concetto di rappresentazione audiovisiva. Il cuore di Flow sono, come detto sopra, i suoi animali, i quali contribuiscono anche per via di un singolare design al fascino allo stile riconoscibile dell’opera: gli evidenti limiti della computer grafica non vengono mai occultati dal lettone, perché l’abbozzata e imperfetta lavorazione dei corpi e delle texture – realizzata con Blender, software open source, che non intacca però la fluidità delle animazioni e dei movimenti piuttosto verosimili – non pare in alcun modo approssimativa o rudimentale, ma anzi, proprio nella sua imperiosa natura distante dai modelli stantii dell’animazione digitale moderna, riesce inaspettatamente ad evocare il naturale, più che il reale, con vigore e senza necessità di fotorealismo.