Felicità

Micaela Ramazzotti

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La storia di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.
DATI TECNICI
Regia
Micaela Ramazzotti
Interpreti
Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini
Durata
104 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi
Fotografia
Luca Bigazzi
Montaggio
Jacopo Quadri
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
Italia
Anno
2023

Presentazione e critica

Roma. Desirè lavora come truccatrice nei set cinematografici e da quando era adolescente ha sempre messo i soldi da parte. È ingenua e disponibile e molti se ne approfittano come il padre che la sottopone a continui ricatti morali o il compagno Bruno, un professore universitario narcisista che la fa sentire spesso inadeguata. Quando il fratello Claudio, per il quale ha firmato dei documenti su pressione dei genitori per poter pagare una Mercedes nera con cui il ragazzo avrebbe dovuto iniziare un lavoro come autista, entra in depressione, Desirè capisce che è l’unica che lo può aiutare e, per riuscirci, deve allontanarlo dalla sua famiglia che ha sempre trascurato i suoi problemi psichiatrici. E per farlo può contare solo su sé stessa.
C’è una strana vicinanza tra Felicità, debutto alla regia di Micaela Ramazzotti e Anche libero va bene con cui Kim Rossi Stuart ha esordito dietro la macchina da presa. Sono due film che mettono in discussione la figura paterna, che fanno sentire il peso delle aspettative da parte della famiglia e di come i conflitti che crea possono restare insanabili a lungo o per sempre. Kim Rossi Stuart interpretava il padre che opprimeva il figlio. Micaela Ramazzotti invece è la vittima, che si fa in quattro per accontentare tutti e non riesce a dire di no a due uomini che la condizionano e, in modi diversi, si approfittano di lei. Da una parte c’è Max Tortora che chiede soldi, finge malori, gioca sul senso di colpa. Dall’altra parte un ottimo Sergio Rubini che mette a nudo le contraddizioni e l’egoismo del suo personaggio. “Mi cammini sempre davanti” le dice Desiré. Ed è proprio in questa distanza, in questa mancata sincronia che il suo personaggio si trova spesso da sola.
Ramazzotti recupera tracce della commedia all’italiana soprattutto attraverso il personaggio di Tortora (forse intenzionalmente fuori le righe) che eredita la meschinità di quelli di Alberto Sordi. In più c’è una scena ‘insostenibile’ – e proprio per questo uno dei momenti più riusciti di Felicità – in cui il regista Giovanni Veronesi, nei panni di sé stesso, e la troupe si prendono gioco di lui, lo truccano negli occhi per fargli esibire il suo monologo e poi gli fanno fare le piroette. Questo momento, nel modo di filmare la ‘tragedia del ridicolo’ richiama quella in cui Ugo Tognazzi mima una locomotiva in piedi su un tavolo in Io la conoscevo bene.
Poi Ramazzotti eredita l’immediatezza, la sincerità di molti personaggi interpretati per Paolo Virzì, da Anna Michelucci di La prima cosa bella a Donatella Morelli in La pazza gioia, film con cui Felicità condivide il tema della salute mentale. Ecco, è proprio nell’affrontare il disagio psichico che il primo film da regista di Micaela Ramazzotti perde lucidità, sia nella scena in cui Desirè ritrova il fratello chiuso in macchina, sia nel modo in cui inquadra il volto di Claudio ma riesce solo parzialmente a entrare nel suo mondo. La fotografia di Luca Bigazzi però l’aiuta a mostrare lo squallore del suo universo familiare anche con gli esterni grigi o gli interni estranei dell’abitazione che condivide con Bruno.
Micaela Ramazzotti è Desirè. C’è in lei la storia di molti suoi personaggi interpretati, la gestualità e le espressioni come attrice e anche la sua regia asseconda il suo spirito inquieto che si muove in una zona squilibrata tra commedia e dramma. Felicità però sa essere anche amaro, coinvolge nel modo in cui trasmette dolore e vitalità ed è un film di grande generosità.

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L’esordio alla regia di Micaela Ramazzotti si presenta innanzitutto con un titolo antifrastico. Felicità è una speranza, un augurio, un’opzione per il futuro? O forse la protagonista Desirè è follemente felice così, prostrata a una generosità autolesionistica nei confronti della famiglia, del lavoro e in fin dei conti pure del compagno, che tanto si dà da fare per aprirle gli occhi? Felicità è l’opera prima che non ti aspetti. Triste, pessimista, incattivita, priva di qualsiasi indulgenza verso i personaggi che racconta. Sulle prime viene da pensare di assistere a un ennesimo interno familiare all’italiana, oggetto di una consueta commedia di costume di ambientazione romana e piccolo-borghese come mille altre abbiamo visto negli ultimi trent’anni di cinema di casa nostra. Alcuni spunti iniziali fanno pensare a questo. L’introduzione al racconto illustra una consueta svampitella bionda dal forte accento romano, ruolo cucito addosso a Micaela Ramazzotti da almeno quindici anni. E Desirè è anche questo. Il personaggio principale è una sorta di summa di altre figure femminili incarnate più volte nella carriera dell’attrice. Gli imbarazzi della ragazza nel trovarsi in eleganti contesti di élite fanno pensare subito all’Anna Nigiotti di La prima cosa bella (Paolo Virzì, 2010) e ai suoi strafalcioni linguistici e comportamentali.
Eppure, la sceneggiatura scritta sempre da Ramazzotti con la collaborazione di Alessandra Guidi e Isabella Cecchi svolta presto verso orizzonti sensibilmente diversi. Innanzitutto emerge con forza uno sguardo aspro e senza sconti nei confronti di un contesto antropologico piuttosto credibile e veritiero. La famiglia disfunzionale, oggetto principe di tanto recente cinema italiano di consumo, si inscrive stavolta in un interno quotidianamente orrendo, significativo e penetrante nel disegno delle sue figure. Nessuno è un mostro fino alle estreme conseguenze. Ma sono anche mostri, in tutto e per tutto, in particolare le figure dei due genitori. Felicità sembra voler parlare anche dell’Italia, innestando nei suoi personaggi profili esemplari di un certo modo di pensare e comportarsi nel nostro Paese, oggi come ieri. Così, i genitori Max e Floriana (ottima prova di Max Tortora e Anna Galiena) sono un impasto di luoghi comuni e mentalità superate, di quotidiani razzismi, miserie e ipocrisie. Sono l’incarnazione di un affannato inseguimento del benessere sempre al di sopra delle proprie possibilità, ché tanto quel che conta è l’immagine e magari instillare un po’ d’invidia negli altri. Eppure, al tempo stesso mamma Floriana emana il profumo della cucina di casa. Si delinea per un mostro quando ci fermiamo a pensare un attimo in più a quel che dice, a quel che fa. Fino a un secondo prima, è un’ordinaria donna di casa che a modo tutto suo stravede per marito e figli, e il cui interesse principale è preparare ottimi pranzi per tutti e darsi poco pensiero. O magari fare un video al marito che si esibisce in una squallida festa mentre la sua famiglia va a rotoli.
L’Italia di Felicità, tutta racchiusa nel nucleo familiare dei Mazzoni, rischia di sembrare fin troppo allegorica e didascalica. Non lo sono in realtà gli strumenti del film. Negli ampi dialoghi, distesi in sequenze spesso molto lunghe, risuonano temi dell’Italia di ieri e di oggi disciolti in un naturale flusso di parole che lasciano esprimere i propri intenti senza eccessive enfasi e sottolineature. L’ambizione di Felicità è il racconto di una disastratissima Italia di oggi che paga ataviche colpe delle generazioni precedenti. A ben vedere, le colpe sono quelle tipicamente italiane di sempre. Pressappochismo, cialtroneria, fuga dalle responsabilità, facilità nel rovesciare le colpe dei propri fallimenti sull’ultimo sfortunato in arrivo (il reiterato disprezzo per gli extracomunitari…), tendenza a ottenere sempre il massimo con il minimo sforzo, e magari grazie alla fatica di qualcun altro. Papà Max soffre un’imperitura frustrazione per non essersi affermato nel mondo dello spettacolo, ma intanto, in una delle notazioni più acute, si è preso giovanissimo la baby-pensione anni Ottanta pur avendo due figli piccoli a carico. Nell’angusta odissea dei Mazzoni si delinea un penetrante sguardo sull’eterna lamentazione italica che conosce qualsiasi forma di rimostranza fuorché la minima traccia di autocritica. Del resto, l’autoassoluzione fa parte anche di tanto cinema italiano degli ultimi anni. Felicità non ci sta, guarda altrove, registra un disastro e ne dà conto a chiarissime lettere (…).

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