Dan Kwan, Daniel Scheinert
Premio Oscar 2023, miglior film
Premio Oscar 2023, miglior regia
Premio Oscar 2023, migliore sceneggiatura originale
Premio Oscar 2023, migliore attrice protagonista (Michelle Yeoh)
Premio Oscar 2023, migliori attore e attrice non protagonisti (Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis)
Premio Oscar 2023, miglior montaggio
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
70 milioni di dollari in USA, già quasi 100 nel mondo. Con questo significativo biglietto da visita arriva nelle nostre sale EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, il fenomenale progetto targato A24 e diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert (noti come The Daniels), che già dal poster viene definito “Il film definitivo sul multiverso”. Parole forti, dopo che i Marvel Studios hanno ormai introdotto, sdoganato e reso remunerativo il concetto di universi multipli su schermo. Parole forti delle quali non possiamo che confermare la veridicità: il film non si limita a sfruttare il multiverso come espediente narrativo, lo rende esplosione creativa, fantasia che corre a briglie sciolte, pluralità di intuizioni, trovate e idee in grado di rendere unica e irripetibile l’esperienza cinematografica proposta. Quello che il cinema dovrebbe essere, soprattutto in questo periodo difficile.
Si parte dal piccolo, dall’ordinario, dal quotidiano. Da Evelyn Wang, che gestisce una piccola lavanderia a gettoni con il marito Waymond, che ha una figlia adolescente con la quale non riesce più a comunicare e un padre anziano che non ci sta più con la testa. Una vita fatta di piccole lotte quotidiane che poco per volta sta minando anche il rapporto tra Evelyn e Waymond, che vivono con lo spettro di un divorzio all’orizzonte, fino a un ordinario controllo di routine all’Agenzia delle Entrate che diventa un punto di svolta per le loro esistenze… e per il mondo intero: Evelyn viene catapultata in un’avventura che mai avrebbe immaginato, pericolosa, avvincente e senza regole attraverso tutte le possibili dimensioni dello spazio e del tempo. Il fardello che ricade sulle sue spalle è importante quanto impossibile: affidarsi alle proprie capacità, e al suo coraggio, per affrontare e sconfiggere un nemico che sembra invincibile, per salvare il destino di tutti gli universi e parallelamente rimettere insieme la propria famiglia.
Tanti universi, tante versioni diverse degli stessi personaggi. Non è uno spoiler, è il funzionamento stesso del concetto di multiverso, ma anche la difficilissima prova che ha dovuto affrontare Michelle Yeoh per portare su schermo la sua Evelyn e tutte le sue varianti. Non è un caso se abbiamo inserito EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE nella nostra lista di film da tener d’occhio per i prossimi Oscar, perché il film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert si candida a ritagliarsi uno spazio nella stagione dei premi, a cominciare dalla sua straordinaria protagonista: Michelle Yeoh cambia attitudini e presenza scenica della sua Evelyn all’occorrenza, muta registro e scivola da una suggestione all’altra con la repentina fluidità con cui il suo personaggio precipita da un universo all’altro. Una prova straordinaria che vi consigliamo, laddove possibile, di apprezzare in originale.
Non è sola in questa impresa impossibile, perché perfettamente coadiuvata da un cast ugualmente in forma: accanto a lei nel ruolo di Waymond troviamo Ke Huy Quan, l’interprete che abbiamo conosciuto negli anni ’80 come il Data de I Goonies o compagno d’avventura di Indiana Jones nel secondo film dedicato al personaggio, mentre è impagabile la prova autoironica di Jamie Lee Curtis nei panni della spietata impiegata dell’Agenzia delle Entrate con cui Evelyn e Waymond devono vedersela, splendida intuizione di un film che sembra avere sempre una nuova cartuccia da giocarsi. Divertente ed emozionante. Folle, brillante e spiazzante. EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE sembra ricalcare nel suo sviluppo le suggestioni del suo titolo: tutto, ovunque e tutto insieme. Un fuoco di fila di idee che tengono costantemente alta l’attenzione, sovvertono le aspettative, ma allo stesso tempo non risultano macchinose o complesse da seguire. Il motivo è una scrittura pulita pur nella sua esplosiva creatività, credibile e verosimile anche quando sfocia in follie surreali, che non perde di vista i protagonisti, le loro pulsioni e dinamiche interpersonali: che siano il rapporto moglie/marito o madre/figlia, il film riesce a indagare i rapporti e raccontare di Evelyn e Waymond così come del complesso rapporto tra la donna e Joy (un’altrettanto brava Stefani Hsu), senza che questi siano cannibalizzati dalle esigenze di un plot pirotecnico e travolgente dal primo all’ultimo minuto.
Un Instant Cult insomma che arriva nelle nostre sale con questo status già acquisito e consolidato, che si impone come punto di riferimento per le storie che vorranno usare l’espediente dei mondi paralleli da qui in avanti.
Un’alta dose di folle inventiva, un pizzico di humour demenziale, citazionismo alternativamente pop e colto, un budget limitato quanto basta per garantire la libertà creativa necessaria al tutto, sono questi i principali ingredienti di EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, un cult movie in qualche modo persino programmatico, che punta dritto a un pubblico “di nicchia” ben sapendo quanto questo sia, e la storia del cinema lo ha più volte dimostrato, pronto a rivelarsi nutrito e influente. E l’operazione, in tal senso, pare proprio funzionare, dato il successo già raccolto in patria dal film e l’attesa che accompagna ora il suo arrivo nelle nostre sale. (…) La regia ben orchestrata dei The Daniels, prima di manifestarsi in scontri corpo a corpo balisticamente ben calibrati, fin dal principio gioca visivamente con il caleidoscopio di invenzioni che poi andrà a somministrare, a partire ad esempio dall’utilizzo di elementi scenici quali uno specchio circolare (che non a caso accompagna il nostro accesso al film), cui fa eco poi l’oblò lavatrice, pronto a rivelarci, tramite il ripetuto capovolgimento del bucato, che in fondo siamo tutti panni sporchi, pronti ad essere ribaltati per l’intera durata dell’operazione-film.
Sullo sfondo del soggiorno in cui Evelyn si barcamena tra ricevute e scontrini, troviamo poi una lampada luminosa dove ruota sempre la stessa immagine, elemento metariflessivo, forse, del film o del cinema tutto, e a scandire il ritmo troviamo anche le pale rotanti di un ventilatore, mentre sullo sfondo svetta un florilegio di filmati delle videocamere di sorveglianza, a cui lo sguardo della protagonista è precluso, ma non di certo il nostro: sono queste infondo il preludio al continuo attraversamento di universi concepiti come scatole cinesi.
Azione, fantascienza, melodramma familiare e poi anche musical di Bollywood, commedia demenziale, wuxiapian, fantascienza, animazione 2D, dramma sociale, melodramma amoroso e familiare, con il grimaldello del multiverso everything everywhere all at once attraversa ogni genere, per poi andare più nello specifico con le sue citazioni. Tra quelle più esplicite troviamo 2001: Odissea nello spazio, Ratatouille, In the Mood for Love, ma si respirano echi di Matrix (il mondo parallelo, l’eletta), Il seme della follia (le infinite possibilità di sviluppo della narrazione, il capovolgimento eterno tra realtà e finzione) che vengono alla luce nei momenti che alludono in maniera più esplicita a un certo substrato filosofico del film, che include riferimenti a un algoritmo stocastico, alla fisica quantistica, nonché a questioni come la verità e il libero arbitrio, che fanno capolino nei dialoghi dei personaggi.
Ma soprattutto alla base di EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE c’è qualcosa che pensavamo ormai di aver perduto per sempre: quel gusto eccessivo applicato all’azione quanto al sentimento (il melò familiare esplode nell’ultima porzione di film), che caratterizzava il cinema hongkonghese dei suoi anni migliori (tra gli ’80 e i ’90) e che oggi, con l’apertura al mercato cinese e alla relativa audience, pare in buona parte perduto. D’altronde è sempre stato così, il cinema di Hong Kong e quello hollywoodiano si sono felicemente, creativamente cannibalizzati più volte nel corso della storia (pensiamo, tra gli altri, ai casi di Kill Bill e The Departed), ed è giusto che qualcuno, sul suolo statunitense, faccia nuovamente sfoggio ora di questo retaggio.
E infine, vale certo la pena certificare come in Everything Everywhere All at Once siano presenti le caratteristiche del cinema postmoderno, un cinema di superficie, attraente, variopinta e opaca, metalinguistico, denso di riferimenti ai film del passato (è un cinema decisamente “post”), di fuochi d’artificio fini a se stessi, dove alto e basso hanno pari dignità, dove l’immersione, l’attraversamento e la sovversione dei generi la fanno da padroni. Per i più ottimisti poi, EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE è (anche) una metafora dell’arte che più ci sta a cuore, perché è il cinema quella porta d’accesso verso altri mondi dove possiamo illuderci di acquisire capacità che non abbiamo, essere una versione migliore, o peggiore di noi stessi. L’unico luogo-non luogo che è tutto, dappertutto e tutto insieme.